Ricordo quel giorno come fosse ora.
Sedevo comoda in poltrona con l’orecchio teso al muro. Non c’era molto sforzo, solo una leggera tensione nel collo che s’era risaputo avessi udito fino e sensi accresciuti dall’esperienza.
Sentivo la sua mano scrivere, il fruscio stretto della carta contro la grafite, le pagine incallite rivoltarsi alle parole e lui, arrogante, a domarle. Sapeva farlo, eccome se sapeva! Le piegava, urlava spietato, le addomesticava, le baciava, le adulava, seviziava e poi amava.
Una dopo l’altra cedevano e il foglio riceveva assetato. Pareva fosse sangue, era solo vita.
Poi, dopo il tempo di un soffio, le uccideva, strazianti parti eterne dei suoi scritti. Sue, e di null’altro.
Quel giorno accade un fatto, ricordo che il respiro mozzava il tempo, parevano mani strette a strangolare ma era solo un fiato, non tutta l’aria dismessa. Ricordo che in quel lasso alterato della mente, sentii tramutare il fruscio in verbo e sebbene non ne sapessi lingua e declinazione, capii che era poesia.
Un fluire d’armonia, un coltello piantato, un sasso divelto, la casa infranta, il cuore spezzato, l’amore e l’odio e la morte, tutte a far balletto e beffa. Lui sapeva farlo, tramutare fruscio in parole, vita in destino, solitudine in pianto, amore in odio, rabbia in dolore.
Erano parole soavi e melodiose, parlavano di campi e montagne, di donne e cavalieri, di campane e morte. Parevano perle inanellate, una dopo l’altra, un gioire d’intenti. Parevano le stelle del cielo, i riflessi della luna sul lago, diamanti grezzi da cesellare e poi incastonare a forza nel cuore.
E fu di quelle parole che mi venne fame.
Fu un tempo strano, ricordo, non seppi come cominciai a pregare e la prece fu volta in pianto e poi in languido orgasmo: fu notte e giorno e morte e vita. E venne dentro me, ricordo bene, un lussurioso desiderio della carne, di pelle e fluidi caldi e vivi. Mi venne fame e sete, e d’ingordigia fu il mio tavolo imbandito.
Non fu per vendetta, mi dissi poi, né per passione, che l’amore ha foggia d’albero e radici e non di fuoco e tenebra vestito. Altri sommi cervelli seppero ingannare il verbo e chiamare amore ciò che non era ma solo catena, ma io m’ero ridestata da tempo e rivolgevo al volgo ironico ghigno di verità.
Si fece un tempo calmo ed il silenzio dal muro accanto fu tanto lungo quanto il battito d’un polso. Non vi fu più fruscio, oltre il muro.
Mi ripresi le vesta che avevo perso, ricomposi il viso, le lacrime rifatte pelle, le guance arrossate tramutate in oro. Riassettai i capelli, ne infilai rose e gigli. Di fuori pace, dentro un fuoco vivo.
Sentii i passi stanchi, piedi strascicati avvicinarsi alla porta, le forti nocche che prima vergavano la fonte ora bussavano alla mia porta. Sentivo che attaccate alle sue mani ancora pendavano, come forca, parole.
Avevo fame di quelle parole. Avevo fame di quella carne.
Fu allora che aprii la porta.
Chiara