“Cosa c’è in un nome?” – ci si potrebbe chiedere. Può esserci molto. A Washington durante il fatidico appuntamento del 20 maggio scorso il presidente Barack Obama ha deciso di utilizzare il nome Myanmar per riferirsi allo Stato che precedentemente insisteva nel chiamare “Birmania”. L’assetto geopolitico dell’Oceano Indiano non sarà mai più lo stesso. Il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha spiegato come gli Stati Uniti vogliano d’ora in poi “a titolo di cortesia e nei contesti adeguati, usare più frequentemente il nome Myanmar”. La diplomazia ha infatti granché a che fare con la cortesia, mentre con “contesti adeguati” ci si può riferire alla visita del presidente Thein Sein alla Casa Bianca, che ha significato il formale avvio della strategia di riequilibrio da parte degli Stati Uniti ad ovest dello Stretto di Malacca.
Una trama comune
Contemporaneamente alla visita di Thein Sein a Washington, il premier cinese Li Keqiang arrivava a Nuova Delhi. Dalla capitale indiana, Li si dirigeva verso Islamabad pochi giorni dopo. Intanto Thein Sein tornava a Naypyidaw appena in tempo per ricevere Shinzo Abe, il primo leader giapponese a visitare il Myanmar dal 1977. E, non prima che Abe ritornasse a Tokyo, il primo ministro Manmohan Singh arrivava nella capitale giapponese per una visita di tre giorni. Per essere precisi, anche la vicina Pechino ricevette, il giorno in cui Manmohan arrivò a Tokyo, un visitatore proveniente dall’Asia Meridionale – ossia il presidente dello Sri Lanka Mahinda Rajapaksa. Il quadro che si è delineato ha trovato poi il suo compimento alla conferenza sulla sicurezza tenutasi a Singapore tra il 2 e il 4 aprile, che ha visto la partecipazione di Chuck Hagel, Segretario della Difesa statunitense. Il filo comune che corre attraverso gli affollati incontri diplomatici delle passate settimane è quello relativo all’ascesa cinese e alla strategia di ribilanciamento statunitense.
Thein Sein è stato il primo capo di stato birmano a visitare Washington in 47 anni. Un’ importante pagina di storia, segnata da profonda freddezza e totale rottura delle relazioni tra i due paesi, viene così relegata al passato. La revoca delle sanzioni statunitensi e la conclusione di un accordo quadro sui commerci e gli investimenti permettono oggi alle compagnie nordamericane d’investire in Myanmar, ultima frontiera nella corsa alle risorse minerarie. I derivati economici di queste aperture potranno essere in futuro reciprocamente vantaggiosi. Il Myanmar vedrà aprirsi la strada agli investimenti e ad una possibile integrazione nell’economia mondiale, mentre gli Stati Uniti sperano d’incrementare la loro presenza in una ragione cruciale per la strategia di ribilanciamento nell’area. Il rafforzamento dei legami col Myanmar aiuterà Washington a contenere la Cina, che vede il Myanmar come vitale canale di comunicazione che lo unisce all’Oceano Indiano – un percorso quindi che possa aggirare lo Stretto di Malacca
Collocazione in un’aerea vitale
La missione di Abe in Myanmar ha integrato l’apertura del Presidente Obama verso Thein Sein. Il Giappone aspira a sua volta all’indebolimento della presenza economica cinese in Myanmar e non ottiene alcun vantaggio dalle sanzioni. Abe ha bisogno che esse diventino un ricordo del passato visto che c’è stato un deciso balzo in avanti della presenza economica giapponese in Myanmar: non a caso, durante la sua visita, il leader giapponese ha portato con sé più di 100 uomini d’affari. Il primo ministro giapponese ha accettato di cancellare ulteriori 1,74 miliardi di dollari di debiti, in aggiunta ai 3,4 miliardi di arretrati dovuti dal Myanmar cui il Giappone aveva rinunciato lo scorso anno. Abe ha anche promesso un nuovo pacchetto di aiuti dal valore di 500 milioni di dollari in infrastrutture e progetti energetici. L’agenzia di stampa “Kyodo News” ha evidenziato come la visita del primo ministro “potrebbe contrastare la forte influenza cinese” in Myanmar. Secondo le valutazioni giapponesi, Pechino avrebbe sovrastimato il suo potere politico ed economico in Myanmar e sta affrontando oggi una progressiva disaffezione nella regione; elemento che Tokyo potrebbe sfruttare attraverso gli investimenti e la creazione di opportunità di lavoro, nonché presentando un programma più affidabile e sistematico circa l’attuazione di piani commerciali e d’impresa.
A quasi sei mesi dal suo incredibile ritorno al potere, Abe si sta impegnando a generare dei cambiamenti nella regione a ovest dello Stretto di Malacca. Prendendo in considerazione la crescente influenza cinese nello Sri Lanka, paese definito “la goccia dell’Oceano Indiano”, il leader giapponese si è mosso per salvaguardare i tradizionali legami del Giappone con l’isola. Abe ha infatti invitato il presidente Rajapaksa a visitare Tokyo durante lo scorso mese di marzo. La dichiarazione congiunta rilasciata dopo i colloqui afferma:
I due leader hanno riconosciuto che, come paesi marittimi, il Giappone e lo Sri Lanka mantengono la responsabilità di giocare un ruolo importante per la stabilità e la prosperità dell’Oceano Pacifico e di quello Indiano. A questo proposito condividono la visione che lo Sri Lanka, essendo situato lungo le rotte marittime dell’Oceano Indiano e avendo le potenzialità per divenire nuovo fulcro marittimo della regione, potrebbe giocare un ruolo positivo e di cruciale importanza all’interno della comunità internazionale. Il primo ministro Abe ha espresso la sua intenzione di procedere affinché il Giappone continui a garantire la necessaria assistenza agli sforzi dello Sri Lanka per raggiungere tale obiettivo.
D’ora in avanti lo Sri Lanka autorizzerà gli scali da parte delle imbarcazioni della marina giapponese e i due paesi coopereranno per garantire la sicurezza marittima dell’area. Il Giappone ha poi firmato un pacchetto di prestiti per lo Sri Lanka che ammontano a 41 miliardi di yen. Abe ha dato rapidamente seguito alla sua azione all’inizio di maggio, delegando il vice-primo ministro Taro Aso e il vice-ministro delle finanze Uko Obuchi a visitare Colombo come parte integrante del tour in Asia Meridionale. “Kyodo News” ha citato Aso e l’impegno, assunto da Tokyo, di sostenere gli sforzi del governo dello Sri Lanka per perfezionare il monitoraggio delle sue coste, considerando che il paese asiatico “si trova in un’importante area geopolitica”.
Ladri meschini
E’ stato in ogni caso l’aggressivo proposito di Abe di stringere forti legami con l’India, a provocare oltremodo la Cina. L’agenda di Abe è infatti caratterizzata da un duplice obiettivo: la realizzazione di accordi bilaterali e la cooperazione trilaterale a fianco degli Stati Uniti. Infatti gli Stati Uniti guardano all’India come al “cardine” della loro strategia di riequilibrio in Asia. Nei discorsi strategici intorno all’area dell’“Indo-Pacifico” è apparsa un’impostazione interamente nuova, che evidenzia come Stati Uniti, Giappone e India attualmente appartengano a un comune spazio strategico. Abe ha corteggiato l’India con successo, riesumando, malgrado le macerie di Fukushima, i negoziati per un accordo sulla cooperazione nucleare e promuovendo ingenti investimenti nel settore tecnologico e nelle infrastrutture di Nuova Delhi. Al di là di ogni ragionevole dubbio, la Cina rappresenta per Tokyo un nodo centrale nell’espansione degli accordi di partnership strategica con l’India. L’India ha dimostrato freddezza a riguardo, ed è in corso un delicato intreccio di simulazioni. Nuova Delhi ha preferito sfruttare le relazioni con il Giappone per assicurarsi un’ottima posizione nei negoziati con la Cina, un gioco che i mandarini hanno perfezionato a Nuova Delhi nel corso degli anni. Ma questa situazione potrebbe essere sul punto di cambiare. Il riaccendersi delle tensioni al confine in seguito alle incursioni delle truppe cinesi a metà aprile ha modificato l’alchimia della politica regionale. Le preoccupazioni riguardanti le intenzioni cinesi si sono fatte nuovamente strada nei calcoli indiani e gli esperti di Nuova Delhi stanno sostenendo con forza la possibilità di un accordo più solido con Giappone e Stati Uniti.
Abe è tenuto in grande considerazione a Nuova Delhi e l’”Abepolitik” fa esplicitamente appello alle sensibilità nazionalistiche degli indiani. Manmohan ha inoltre dichiarato in occasione della sua visita a Tokyo che: “L’India e il Giappone sono naturalmente e necessariamente partner” e le due nazioni dovrebbero considerare con “particolare attenzione la necessità d’intensificare il dialogo politico e le consultazioni strategiche, nonché il progressivo rafforzamento delle relazioni riguardanti la difesa”.
La durezza con cui Pechino ha reagito alle parole di Manmohan ha richiamato l’attenzione sul nuovo indirizzo della politica indiana. Il portavoce del partito comunista al potere, il “Quotidiano del Popolo”, si è scagliato contro i leader giapponesi definendoli “ladri meschini” che tentano di guadagnare qualcosa grazie alle momentanee divergenze tra India e Cina. Il “Global Times” ha evidenziato come l’India e il Giappone siano ormai vicini alla firma di un accordo per la fornitura di aerei US-2 all’India e come questo segnerebbe un rafforzamento dell’alleanza tra Giappone e India in termini di difesa e cooperazione militare. Il quotidiano ha ugualmente accusato il Giappone di provare ad acquisire un vantaggio grazie alle tensioni di frontiera tra India e Cina, tentando di contenere l’influenza di quest’ultima con le possibili commesse militari. Ma Pechino non è tanto lontana dai risultati ottenuti da Abe nel corteggiamento dell’India. La nuova leadership cinese ha compiuto un gesto dalla straordinaria importanza nello scegliere l’India come prima visita all’estero da parte di Li in seguito alla sua elezione a premier. Li ha offerto agli indiani, durante i suoi tre giorni di visita, un “accordo attraverso l’Himalaya” e ha proposto “intesa e cooperazione strategica” tra le due nazioni. Nuova Delhi sceglie per ora di riflettere sulla proposta, ma è tutto meno che disinteressata.
Il consigliere per la sicurezza nazionale Shivshankar Menon visiterà Pechino prossimamente, seguito dal ministro della difesa A.K. Antony e dallo stesso Manmohan. Ci sono per i due paesi ragioni sostanziali per riflettere su quanto accaduto rispetto alle dispute di frontiera e per negoziare quel minimo necessario a preservare una fiducia reciproca nelle relazioni. Pechino apprezza la riluttanza degli indiani a cedere la propria indipendenza in politica estera e a farsi coinvolgere in blocchi ed alleanze. È inoltre in gran parte compito di Pechino non indurre Nuova Delhi ad avvicinarsi troppo al Giappone e/o agli Stati Uniti.
Scegliendo il Pakistan come seconda tappa del tour internazionale di Li, Pechino ha evidenziato come le epiche relazioni cinesi con il paese non siano più “indianocentriche”. Li aveva come principale obiettivo quello di preservare l’unicità delle relazioni sino-pakistane, nel corso di una particolare congiuntura storica, un momento in cui il Pakistan attraversa una transizione e permangono numerosi elementi d’incertezza rispetto al suo futuro. Il leader cinese ha avanzato due proposte per garantire il rafforzamento della presenza strategica cinese nell’Oceano Indiano: promuovere la costruzione di un corridoio economico sino-pakistano dal Golfo Persico attraverso il Pakistan fino a raggiungere l’ovest della Cina, e avviare una cooperazione marittima con il paese. Ad ogni modo, al di là del dinamismo dimostrato dai cinesi nel corso delle passate settimane, è stata la visita di Rajapaksa a Pechino ad essersi rivelata l’iniziativa più importante e mirata. A dire il vero, le relazioni tra Cina e Sri Lanka sono in fase di rapida espansione e Pechino percepisce che esse hanno il potenziale per acquistare la stessa vivacità dell’amicizia cinese con il Pakistan, un’alleanza “valida per ogni stagione”.
Durante la visita di Rajapaksa, la Cina ha esteso allo Sri Lanka un ingente pacchetto di prestiti, dal valore di 2.2 miliardi di dollari, da impiegare nel settore delle infrastrutture e ha annunciato una partecipazione cinese di ampio respiro all’ambizioso programma di Colombo di trasformare lo Sri Lanka in una nuova Singapore. Pechino trova inoltre che la fase positiva dell’economia dell’isola sia sufficientemente incoraggiante per consentire il potenziamento degli investimenti nel paese. Le due nazioni hanno accettato di siglare un accordo di libero scambio. Durante la visita di Rajapaksa, Pechino ha poi “aggiornato” i legami con Colombo trasformandoli in un “partenariato strategico” e i due paesi hanno deciso d’intensificare la cooperazione nell’ambito militare e nella sicurezza.
Un’agenda minimalista
La trama non espressa che collega questa straordinaria serie di eventi concentrati tra aprile e maggio si è finalmente manifestata in carne e ossa in una “discussione” avvenuta nel corso della conferenza sulla sicurezza a Singapore. Chuck Hagel, al termine del suo discorso, è stato apertamente sfidato da un generale cinese a spiegare il perno statunitense sull’Asia dal punto di vista militare. Il generale ha aggiunto che il nuovo focus dell’amministrazione Obama sull’area del Pacifico è stato ampiamente interpretato come un “tentativo di contrastare la crescente influenza cinese e di compensare le crescenti capacità militari dell’esercito cinese. In ogni caso la Cina non è convinta”. Nel corso delle sue pungenti osservazioni, il generale cinese ha chiesto ad Hagel come egli possa assicurare alla Cina che l’incremento della presenza statunitense nella regione sia parte di uno sforzo per costruire relazioni più positive con Pechino.
Il punto è che la Cina di fronte all’audience regionale composta dai ministri della difesa e dagli esperti di sicurezza si è assicurata quanto è facilmente provocata. E, senza dubbio, la paura che la Cina sia provocata potrebbe già aver trovato spazio in molte considerazioni asiatiche. Il cuore della questione è rappresentato dal fatto che per tutto il periodo in cui continuerà l’ascesa economica cinese, crescerà insieme ad essa anche l’interdipendenza delle altre economie asiatiche. Del resto esiste un limite alle possibilità di Giappone e Stati Uniti di aiutare i diversi attori regionali se questi ultimi dovessero trovarsi a vivere relazioni di grande tensione con la Cina. A tal proposito, infatti, l’amministrazione Obama sta anche provocando perplessità nella percezione asiatica attraverso l’ostinato tentativo di avvicinare la nuova leadership di Pechino, considerandola come parte interessata in una collaborazione di tipo globale. C’è stato nelle scorse settimane un flusso costante di alti funzionari in viaggio da Washington alla capitale cinese e l’infelice iniziativa di convocare un summit USA-Cina in California ha colto di sorpresa i paesi dell’area Asia-Pacifico.
Va evidenziato come il grande vantaggio di Pechino sia quello di avere un’agenda minimalista rispetto alle dinamiche di potere emergenti: nello specifico, l’obiettivo principale consiste nell’impedire al Giappone o agli Stati Uniti di coinvolgere i paesi della regione in qualsiasi strategia di contenimento diretta contro la Cina. Non si tratta, per la maggior parte degli Stati dell’area – inclusi un tradizionale alleato degli Stati Uniti come la Corea del Sud o uno storico nemico della Cina come il Vietnam – di una pretesa eccessiva. Dall’altro lato, Stati Uniti e Giappone non possono accontentarsi dell’eventualità che gli altri paesi asiatici rimangano semplici “custodi del recinto”. Naturalmente il tempo gioca a favore della Cina.
Paesi come il Myanmar, lo Sri Lanka o il Pakistan, potrebbero percepire i vantaggi derivanti dal mantenimento di una condizione di relativo equilibrio tra le due potenze,con l’obiettivo di ottenere supporto tecnico ed economico sia dalla Cina che dall’Occidente. Thein Sein ha certamente colto le implicazioni dell’importante decisione di Obama di usare la denominazione ufficiale per riferirsi allo Stato di cui è a capo. Rajapaksa si è assicurato molto più spazio del passato per negoziare faccia a faccia con un’India dominante. Il Pakistan si sente incoraggiato a resistere alle pressioni statunitensi. Manmohan potrebbe anche considerare che, mentre il partenariato strategico e di sicurezza con il Giappone può essere un ottimo obiettivo di lungo termine, la priorità dell’India per il breve periodo è invece quella di creare e mantenere un ambiente circostante pacifico in cui lo sviluppo divenga possibile. Il Giappone è infatti molto indietro rispetto alla Cina come alleato di riferimento dell’India nel commercio e negli investimenti. I vantaggi dell’India risiedono poi nel monetizzare l’alto livello d’interdipendenza tra Stati Uniti e Cina e nella mancanza di chiarezza che emerge ora che Abe rappresenta il Giappone e la sua politica influenza le scelte del paese.
(Traduzione dall’inglese di Marlène Mauro)