E l’uomo va, cosciente dei suoi limiti, oppresso dai dubbi, aperto alla speranza, votato alla ricerca, alla preghiera, all’angoscia, egli pur va e non conosce la meta!!! Migliaia di anni di studio e verifica, innumerevoli scoperte, la fantastica evoluzione del pensiero, non sono serviti ad aumentare le sue capacità cognitive di base, pur essendo aumentate enormemente le sue conoscenze scientifiche.
Platone che cerca nel mondo delle Idee quel quid che Aristotele individua nel “primo motore”, non sono molto dissimili dalle idee dell’uomo moderno, che neppur oggi possiede elementi certi per risolvere l’annoso enigma.Lo sguardo rivolto al cielo del grande ateniese quasi a chiedere illuminazione e conforto ad un misterioso demiurgo o la mente rivolta a terra del biologo stagirita quasi a cercare qui, con le proprie forze, una plausibile spiegazione di un viaggio misterioso, non sono altro che la proiezione pittorica delle nostre angosce nel mondo di ieri come nel mondo di oggi, laddove Scienza e Fede inutilmente dialogano o si scontrano quasi a significare l’impossibilità della Conoscenza, l’incapacità di definire l’Indefinibile.
Noi potremo ancora progredire enormemente, la sofisticata tecnologia di cui oggi disponiamo ci avvicinerà tanto al momento primo, da poter “vedere”, senza possibilità di contestazioni, perfino il Big Bang iniziale, eppure ci sarà sempre qualcosa al di là dell’Universo, sia in senso spaziale che temporale, in una desolante, angosciosa, disperata ricerca di comprensione dell’Idea d’Infinito. E’ questo il punto!! E’ questa l’angoscia! E se da una parte il mistico, con le sue Verità rivelate, cerca di lenire l’affanno proiettando in un futuro non dimostrabile il fine ultimo del suo faticoso cammino, l’ateo dall’altra, con le sue carenti Verità sperimentali, deve concretizzare in un breve arco di Vita tutte le sue aspirazioni. Diciamoci la verità, almeno quella con la v minuscola. Noi non siamo in grado di autodefinirci.
Noi non siamo in grado di comprendere l’Idea, la Cosa in sé, la nostra vera Essenza e l’angoscia che ci affligge altro non è che la consapevolezza che questa Cosa, che è indefinibile, pure ci deve essere al di là della Conoscenza, senza confini spaziali e temporali, perché, se non è niente altro che il nulla, è pur sempre il Nulla che la nostra mente contiene come concetto astratto, ma sempre legato all’inquietante certezza dei propri limiti che c’incatenano alla terra, noi, proiettati atavicamente verso il Cielo. L’arte coglie questo anelito, questa aspirazione, l’arte come pittura, l’arte come musica, l’arte come poesia. E’ il grido dell’Uomo, la creatura pensante, l’animale che sa di dover morire, l’uomo che, pur consapevole della sua fine, vuole lasciare una traccia o tentare l’immortalità sublimando e forgiando la materia con la malta delle sue idee. Ascoltiamo, per esempio Beethoven.
Nel suo “inno alla gioia” c’è la sintesi magistralmente espressa di tutte le angosce dell’uomo come proiezione universale della sua personale vita travagliata. Le sue note sublimi evidenziano la sua capacità di sublimare nella meravigliosa astrazione della musica, tutti quei concetti morali che gli furono inculcati dalle sue sofferenze fisiche da una parte, dai suoi studi severi dall’altra. Egli crede nell’insegnamento “attraverso la notte alla luce” e passa da un amore vero e spassionato per la natura popolata da creature animali e vegetali ( la Pastorale), all’amore universale, al messaggio d’amore e di fraternità della nona sinfonia, stimolandoci ad un abbraccio globale che ci racchiuda tutti, di ogni razza e costume, di ogni credenza o condizione sociale. Noi, uomini semplici, raccogliamo il messaggio racchiuso nelle opere d’arte pittoriche o musicali, sperando in una gratifica quanto più possibile proporzionale allo sforzo e all’impegno di tutta una vita.
Per Ludwig, forse, il momento della gratifica fu quando, chino sullo spartito, alla fine di un concerto che lo coglieva ormai completamente sordo, fu invitato da un cantante che scendeva dal podio a girarsi verso il pubblico per assistere allo spettacolo più bello della sua vita: un tripudio di fazzoletti bianchi che il popolo viennese sventolava in segno di gioia ed ammirazione verso il musicista apparentemente isolato nella sua sordità, ma che era riuscito a trasmettere come ancora oggi fa, quelle intense emozioni che fanno dell’animale che è in ognuno di noi, quell’homo sapiens che s’interroga, si studia, si evolve e si migliora.