Presentato in concorso all’ultima edizione del festival di Venezia,
La talpa venne accolto molto positivamente dalla critica e, da quel che si disse, fu fino all’ultimo in lizza per uno dei premi più importanti, per poi però rimanere a sorpresa all’asciutto. Il film segna il ritorno dietro la macchina da presa del talentuoso Tomas Alfredson a tre anni di distanza dal piccolo cult svedese Lasciami entrare (2008), di cui è stato immediatamente realizzato un (ottimo) remake statunitense uscito nelle nostre sale lo scorso 30 settembre (Blood Story di Matt Reeves).Adattamento cinematografico del celebre omonimo romanzo di John le Carrè (1974), questo thriller spionistico d’altri tempi, solido nella costruzione e assai elegante nella forma, narra l’ardua ricerca da parte dell’ex agente in pensione forzata George Smiley (Gary Oldman) della talpa che, in grado di fornire indisturbata una molteplicità di informazioni top secret ai sovietici, si nasconde tra le sfere più alte dei servizi segreti britannici. Siamo nel 1973, in piena Guerra Fredda: il Secret Intelligence Service sta attraversando un periodo di affanno e, mentre i rapporti con i servizi nordamericani sono piuttosto freddi, tenta con difficoltà di salvaguardare la sicurezza della Gran Bretagna. In questo particolare contesto storico, segnato da una greve atmosfera di drammatica incertezza, stanare la talpa diviene quindi per il Circus (nome in codice dei servizi segreti britannici) anche una preziosa occasione per rilanciarsi sul piano internazionale. Sceneggiato con sapienza a quattro mani da Bridget O’Connor (deceduta lo scorso anno, a cui è dedicato il film) e Peter Straughan (Star System - Se non ci sei non esisti, 2008, L’uomo che fissa le capre, 2009), La talpa si contraddistingue per il raro e suggestivo approccio intimistico e radicalmente anti-sensazionalistico alla materia spionistica (caratteristica già fondamentale nei lavori di le Carrè). In più, per lunghi tratti quella di Alfredson è un’opera che parla abilmente – e con classe da vendere – attraverso il linguaggio delle immagini (molto suggestivo ad esempio il ripetuto uso del carrello laterale, in particolare a seguire il movimento dei personaggi) ancor prima che facendo ricorso a parole e dialoghi. E questo è probabilmente il miglior pregio possibile per una pellicola tratta da un’opera letteraria. Ottime le interpretazioni dell’intero cast, dalla straordinaria prova di Gary Oldman (il quale, lavorando mirabilmente per sottrazione, riesce con forza a restituire la freddezza del suo introverso e saggio personaggio), passando per Colin Firth, John Hurt, Mark Strong, Toby Jones e Benedict Cumberbatch.Articolo pubblicato su Taxi DriversMagazine Cinema
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