“Sul retro della copertina una nota di accompagnamento di Mauro Ferrari che riguardo al testo scrive: “Capita di rado di aprire un libro di poesia intenso e strutturato come La tana e il microfono; in un tempo in cui i poeti raccolgono i frammenti delle proprie esperienze personali spacciandole per universali, o raccontano le proprie storie come fossero brandelli significativi di Storia, Antonio Alleva ci consegna uno dei libri più alti e consapevoli di questi ultimi decenni…” – Mauro Ferrari
E poi, la prima poesia di “La tana e il microfono” di Antonio Alleva: “Bianco, bianco, tutto bianco. / mi chiedo se avrebbe ancora senso/ ma il fascino resta indenne ci prende/ la mistica del se riusciremo un giorno/ ad innalzare la scrittura all’apice del silenzio/ se mai riusciremo un giorno a lasciarlo davvero tutto bianco questo foglio”./ Sembra di vederlo quel foglio bianco che aspetta una manifestazione dal luogo in cui nulla si crea e nulla si distrugge, mentre il Poeta si chiede se oltre l’involucro: “a quel punto, preverrà la mistica/ del lasciarsi colare su/ quelle antiche gocce di bel sangue/ se si dichiarerà fallito l’ennesimo tentativo di/ battere dio/ facendosi solo fruscio facendosi solo lo scrivere/ o se invece avrà stravinto l’invisibile raggiante sorriso/ l’io-vivente come un dondolo felice/ tra gli alberi e la sapienza che già precedevano/ la carta”.
Pagina dopo pagina, mi ritrovo dentro un insieme di voci: bisbigli, invenzioni linguistiche, silenziosi voli ubriachi di farfalla, alcuni om, come se Antonio Alleva volesse occultare la figura del classico poeta ed evidenziare un’immagine di sè diversa e contrastante, di un poeta nomade che non perde di vista la sua tana.
Non vuole essere individuato, eppure, racconta di piazze e di feste, di chiese, di gioie e nostalgie, di angeli, e di un Ottobre afgano: “dai Papija tira fuori quelle 4 pezze di plastica a colori quelle strisce di canna quel rocchetto di filo e vediamo di ricordare anche con una mano sola come si fa” (da Il GT ragazzi in diretta da Kabùl).
Dalla Moschea ritorna nella sua tana con il Venerdì Santo, alla strada “lenta e giusta” ed alla religiosità accosta il quotidiano nel Sabato Santo: “tu Guerino accendi il fuoco ai piedi del sagrato/tu Renato l’incenso, poi dondola sventola/ tu Mimì il cero, usa il palmo ripara la fiamma/ dalla brezza/ <alfa e omega il principio e la fine>/“. Tra il patema e l’incanto, tanto per usare il titolo di una sua poesia a pag.85, prevale la mistica del lasciar colare sul bianco “l’irrisolto enigma tra il reale che ci attanaglia e noi”, dal quale fuoriescono “brillanti ed in volo” tutte le sue energie.
Il libro di Antonio Alleva, raccoglie poesie scritte dal 1999 al 2003 e in ordine si susseguono i seguenti capitoli; “Frugando il celeste”, “Reportage dal villaggio”, Appassionato reporter”, “L’angelo della parola e la confederazione delle anime”, Canzone per il micio che muore”, “Ottobre Afgano”, “La bandierina di Quimper”, “Serenata per un nuovo giugno”.
Leggere un autore di poesie per chi scrive poesie è l’incubo peggiore; sapendo che la penna è come un ago, che invece di iniettare liquido nella carne, lo versa su un foglio, mentre il senso si espande nel suo immediato divenire nello spazio candido, tra il silenzio e la necessità di parola in cui si trova un tempo che volteggia come una piuma tra il raccoglimento e il palcoscenico, l’armonia e la platealità, il grembo e la moltitudine.
Sembrano i binomi di una contraddizione che spesso l’uomo si trova a fronteggiare e che Antonio Alleva inserisce tra interno ed esterno, stagliandoli in una poetica discorsiva fatta di oggetti, paesaggi, simboli e sonorità; sul filo di una maturità espressiva notevole che affonda le sue radici in un rinnovamento lessicale che la lirica del nostro tempo sperimenta. Tuttavia quando la parola suona in maniera esplicita depista, pur riuscendo a sopraffare il dolore, a mitigare il senso di colpa ed a scaricarsi contemporaneamente sulla carta in forma. Ci viene in aiuto anche nella resistenza, sussurrando sillabe suadenti come melodie per ritrovare la strada che conduce alla rinascita, oppure, quando alza i toni ed insiste, per imporsi contro tutti coloro che continuano a crederla morta.
Come nel secondo Novecento l’evoluzione prosastica si oppone alla linea ermetica, così il verso di Antonio Alleva, illumina le azioni del quotidiano avvicinandosi alla poetica delle neoavanguardie, pur conservando aloni di senso e coincidenze di natura in un insieme di cose piccole; protagoniste e simboli del suo affascinante universo. Dalla sua tana, Nocella di Campli (Teramo), ricompone il tempo e la sua caducità, in un frammento di poesia pulsante, frutto di ciò che i suoi occhi possono contenere, occultando l’io narrante in un filo d’erba, bersaglio al gioco delle correnti,/ senza nessun tutor, e senza nessuna pietà./ Essere brevità/ l’ultimo esile esempio di come tutta quella forza assurda/ fosse intrecciata così male a tutta quella assurda/ fragilità./ “Poesia del filo d’erba”.
Proprio questo filo d’erba ci rivela la forza tragica del verso-resistenza perso nella prodigiosa soggettività del poeta che definisce il suo “essere brevità”: indipendentemente dalla folla dei pensieri, dai dubbi, dalle confusioni che un individuo può avere. Quasi a voler dimostrare che in una persona esiste un centro dominante che è il punto di attenzione per quel determinante momento di sensibile compartecipazione al mondo.
Antonio Alleva è nato ed è tornato a vivere a Nocella di Campli (Teramo). Ha pubblicato Le farfalle di Bartleby (Edizioni Tracce, 1998) e Reportages dal villaggio in 7 Poeti del Premio Montale – 2000 (Crocetti, 2001). È presente in Vent’anni di Poesia – Antologia del Premio Montale 1982 – 2002 (Passigli, 2002), in Ondate di rabbia e di paura (Rai-Eri, 2002), L’amore, la guerra (Rai – Eri/ Ibiskos 2004), 4 poeti abruzzesi (Edizioni Orizzonti Meridionali, 2004) e in Diversi-Poeti per Sim-patia (DIA-LOGOlibri, 2004).Della sua poesia si sono occupate le riviste: Atelier, sito web di Poesia e Sinestesie, la Clessidra, Il Monte Analogo.
Written by Carina Spurio