(House, M.D.)
David Shore, 2004-2012 (USA/FOX), episodi da 45'
(il testo contiene anticipazioni sull'ultima stagione, parzialmente inedita in Italia)
House come Holmes, fino in fondo. Sin dagli albori della sua fama italiana avevamo accennato al debito creativo dovuto dagli autori di House, M.D. al baronetto Arthur Conan Doyle, padre dell'investigatore più famoso della storia della fiction; in occasione della dipartita televisiva della serie, ritorniamo sull'argomento, tentando di rispondere alla domanda con la quale si concludeva il precedente approfondimento: gli autori avranno il coraggio di “liberarsi” della loro creatura prima che nella storia si sia esaurita ogni spinta vitale?
Dopo otto stagioni di alterne fortune, i primi significativi scricchiolii nei rating televisivi USA hanno convinto David Shore ed i suoi collaboratori a staccare definitivamente la spina ad una serie che ormai da anni vegetava solo grazie al carisma del suo protagonista, Hugh Laurie.
I problemi dello show erano radicati in profondità: l'inatteso successo di pubblico ottenuto dal serial sin dalle prime stagioni costringeva in una “prigione” dorata autori e cast, a cui veniva chiesto (e lautamente remunerato) lo sforzo di stiracchiare sino all'inverosimile la longevità di un prodotto ormai vincente ma privo di una reale prospettiva narrativa; al contrario di altri serial decennali (CSI su tutti) ad House non era infatti concesso quel rinnovamento in termini di personaggi e situazioni che di norma contribuisce a tenere in piedi svariati baracconi della tv via cavo statunitense.
Allo stesso tempo il “format” – un singolo caso medico per episodio, insufficienti sottotracce “orizzontali” pronte a dipanarsi durante tutta la stagione – pur efficacissimo nel breve periodo, rendeva schiavi di un processo analitico sempre uguale a se stesso, in cui dopo un determinato tempo di bagarre il luminare sarebbe giunto alla diagnosi di una malattia rarissima, fulminato da una epifania.
In questo contesto diviene più facile intuire l'obbiettivo del forzatissimo crescendo di colpi di scena che durante gli anni ha contribuito a tenere sveglia ciò che restava dell'attenzione degli spettatori: ecco che il povero Laurie si trova a dover affrontare i suoi problemi di dipendenza da Vicodin (e relative allucinazioni), a sopportare la permanenza coatta in un manicomio stile Qualcuno volò sul nido del cuculo e persino a scontare settimane di reclusione in un penitenziario statale, misure estreme ma necessarie a giustificare dei finali di stagione sempre più irrazionali (e talvolta persino imbarazzanti).
L'idea di fondo degli autori si era trasformata in una sorta di maledizione, poiché li lasciava in balia di fan ed interessi economici (proprio come il loro “mentore” Conan Doyle); non sorprenda dunque che proprio come lo scrittore scozzese abbiano scelto di sbarazzarsi dell'ingombrante protagonista nel modo meno definitivo possibile. Nel caso di Sherlock Holmes neanche la prima “uccisione” fu sufficiente, perché il suo eroico sacrificio in The Final Problem non soddisfò i numerosi aficionados dell'epoca, costringendo Conan Doyle a garantire all'investigatore una repentina resurrezione oltre a numerose altre avventure prima di un sereno e più “nebuloso” pensionamento da apicoltore. Shore e colleghi hanno scelto di condensare nell'ultimo episodio tale tumulto creativo, facendo morire e poi tornare a nuova vita il loro eroe nel giro di una decina di minuti, a coronamento di una stagione finale (l'ottava) che aveva già evidenziato definitivi segnali di smarrimento. Dopo l'ennesima pseudo-rivoluzione del cast – come sempre dovuta a ragioni pratiche come i compensi degli interpreti più che allo sviluppo della storia – s'era infatti arrivati alla estrema ratio di sacrificare l'indispensabile “spalla” Wilson (Robert Sean Leonard) pur di garantire gli ultimi minuti di vitalità ad uno sviluppo ormai anestetizzato; questa scelta però divenuta boomerang aveva finito col conferire alle ore conclusive dello show un'atmosfera melanconica, persino macabra, nella quale non sarebbe stato oggettivamente sostenibile accomiatarsi dall'adorato misantropo.
Nella loro scelta finale, pur figlia di numerose decisioni discutibili, gli autori hanno paradossalmente ritrovato la primigenia lucidità, onorando il debito creativo nei confronti dell'avo Holmes; così l'epilogo è stato "salvato" proprio quando era ad un passo dal crollo definitivo, come l'edificio in fiamme nel quale House pronuncia quello che sembra essere il suo ultimo monologo, accompagnato da una (perdonabile) carrellata autoreferenziale di interpreti/personaggi delle stagioni passate.
All'attore Hugh Laurie viene concesso poi l'ultimo privilegio: uno dei suoi amati blues (Enjoy Yourself, di Louis Prima) conclude l'avventura, spodestando l'atteso You can't always get what you want degli Stones. Peccato solo non averlo sentito con un paio di anni d'anticipo.
Per l'approfondimento: Da Joseph Bell a Gregory House, passando per Sherlock Holmes