La sua vita seguì di pari passo il suo mito: fu artista "totale", Brecht o non Brecht, fu donna di peccato. Incontrò Tay Garnett quando la sua vita, ben oltre i suoi film, erano noti, e si divertì in ciò che le riusciva penoso ne L'angelo azzurro: fare la donna chiassosa volgare, tutt'altro che pudica, donna da taverna. Ma declinando la sua figura alla maniera di Marocco, con quella dedizione, quell'amore che sconvolge la vita, i piani e i progetti di una vita vagabonda: là il soldato della guarnigione straniera Gary Cooper, ne La taverna dei sette peccati (1940, tit. or. Seven Sinners) un giovane John Wayne.
Costretta a lasciare sempre il posto in cui lavora, senza abitarvi mai davvero, la Dietrich gioca con sentimenti, ruoli e gossip. Dopo aver scatenato una rissa, al giudice che la allontana dal suo posto, dal locale, dalla città, dall'isola, dice con una perfidia da perderci la testa:
Svestita della vena metafisica dei film di von Sternberg (e il "von" era tutto americano, un tocco di nobiltà non guastava mai a Hollywood), Marlene Dietrich non è ancora la misurata star da poster di jet set che sarà con Billy Wilder (con Scandalo internazionale e Testimone d'accusa). Ma è, sensibilmente, un personaggio diverso, per un film vivace, tutto dialoghi, incontri, e baruffe (che molto indugiano sulla slapstick comedy): fa anche lei a cazzotti come un maschiaccio, ma scioglie con sbarazzina e irresistibile femminilità i nodi ai cravattini di chi le capita a tiro, è audace fino a perdere il controllo di sé con il bel tenente, e si dibatte, senza liberarsi mai, dall'agente protettore Antro (Oskar Homolka).
La taverna dei sette peccati, nonostante le condizioni del file originale lascino molto a desiderare, è un film già scorrevole, leggero: ma, abbandonata la categoria del conturbante, che è propria della Dietrich, non è ancora lieve.