In questo giorno in cui le immagini della violenza riempiono gli occhi e la mente, ho deciso di pubblicare l’articolo dedicato ad Anna Maria Ortese anche in lingua inglese, un medium in grado di mettere in contatto e favorire il dialogo con la stragrande maggioranza delle persone, quelle che ripudiano la violenza e credono nella possibilità della convivenza civile. Il gesto è inutile, vano, per niente in grado di modificare le cose. Ma in fondo tutta l’arte è inutile. È utopia, ricerca di un mondo altro. Ma senza quella vitale inutilità, senza quella ricerca di un luogo che non c’è, o che bisogna trovare, la sconfitta dell’umanità e della bellezza sarebbe ancora più grave, sarebbe definitiva. Ben venga quindi ogni gesto “inutile” che ci conferma che siamo ancora vivi e ancora tenacemente umani.
On this day in which the images of violence fill the eyes and the mind, I decided to publish the article on Anna Maria Ortese also in English , a medium that can bring together and foster dialogue with the grat majority of the people, those who refuse violence and still believe in the possibility of civil cohabitation. The gesture is useless, vain,unable to change things . But basically all art is useless. It is utopia, looking for another world. But without this vital futility, without the search for a place that does not exist, or that we still have to find, the defeat of humanity and beauty would be even more serious, it would be definitive. I welcome, therefore, every “useless” gesture that confirms that we are still alive and still tenaciously human.
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VIAGGIO NEL REALISMO VISIONARIO DI ANNA MARIA ORTESE:
la tenacia dello sguardo e la pena della “inesistenza”
“Sono sempre stata sola, come un gatto”, scrive di se stessa Anna Maria Ortese. Una frase breve, apparentemente dimessa, quasi un lamento senza pretese, neppure di consolazione. In realtà in questo frammento, in questa scheggia sottile di vetro, è racchiuso un cielo ampio che sovrasta e opprime, un chiarore che impone la visione dei contorni. La solitudine è comune a moltissimi esseri umani. Ma per alcuni che, a dispetto della loro stessa volontà, hanno avuto il dono e la pena di percepire con più forza le luci accecanti e l’alone grigio dell’esistenza, è un fardello di un peso maggiore, quasi insostenibile. È inevitabile anche pensare alla costante presenza quasi fisica, tangibile, di questa solitudine, nei numerosi viaggi che la Ortese ha dovuto affrontare, cambiando città, case, persone attorno a lei, ma restando sempre e nonostante tutto sola. Anche nei suoi contatti con l’ambiente letterario da cui è stata osteggiata ma anche apprezzata e omaggiata, quasi controvoglia ma in modo chiaro, nell’occasione in cui ha vinto il Premio Strega ad esempio, ma anche in diverse altre circostanze, viene fatto di immaginare il suo disagio, l’estraneità di fondo, la volontà di tornare nella sua casa, accanto alla sorella malata, a coltivare un isolamento che era cura e malattia esso stesso.
Eppure, nel frammento di vetro da cui ha preso spunto questo breve tentativo di disanima, c’è anche un riflesso più vivido e un angolo più acuminato. Del tutto involontario, con ogni probabilità, per chi lo ha espresso, ma percepibile, magari con una vitale e volontaria forzatura da parte di chi lo recepisce: sola come un gatto, annotava la scrittrice. Per prima cosa viene fuori un approccio obliquo e personalissimo che ha sempre contraddistinto anche la prosa della Ortese. In genere si dice, e si pensa, “sola come un cane”. Un gatto di solito o è domestico, e quindi non è solo, oppure è solo quando vuole lui, perché lo sceglie, o perché ne ha necessità. Deve essere solo, per difendersi dall’uomo, o da altri animali, o perché quando è solo può dormire, pensare e guardare, osservare la frenesia del vivere, possibilmente senza essere visto. Ecco, l’impressione è che la Ortese, nel suo lungo e intricato viaggio di essere umano e di scrittrice, abbia osservato il mondo con una curiosità vorace, in grado di divorare lei stessa per prima, la sua stessa mente e le sue energie. Ma guardare e annotare, con la sincerità propria di chi è fuori da tutti i branchi e da tutte le congreghe, le era necessario, era il lusso che si concedeva, pronta a pagarlo con l’esclusione e la reclusione, in senso stretto, nelle quattro mura in cui coltivava i silenzi e le parole, i suoi scritti, i fogli con cui lottava ogni giorno per provare a far convivere la fantasia con la realtà.
Anna Maria Ortese nasce a Roma nel 1914, da una famiglia modesta. Durante la prima guerra mondiale vive prima in Puglia poi a Portici e infine a Potenza. Alla fine della guerra il padre si costruisce una casa in Libia. Poco tempo dopo però ritorna in Italia e precisamente a Napoli. Quello con Napoli è il rapporto fondamentale dell’esistenza della Ortese. Più che di un luogo possiamo parlare di una relazione, una storia appassionata e tormentata durata una vita intera.
( L’articolo completo a questo link :
http://www.ivanomugnaini.it/la-tenacia-dello-sguardo-il-realismo-visionario-di-anna-maria-ortese/ )