Le prime settimane del 2015 hanno visto susseguirsi sul grande schermo una serie di biopic uno dietro l'altro, da quelli d'autore (Tim Burton e Clint Eastwood, più o meno validi, ai posteri l'ardua sentenza), a quelli da Oscar come The imitation game e, in ultimo, questo La teoria del tutto di James Marsh. La differenza tra i due sopracitati? Uno è ben fatto, l'altro no. Intendiamoci, il film non sarebbe neanche questo male assoluto e, con un timoniere differente, sarebbe risultato semplicemente il classico film biografico ammiccante e arraffa-premi, con un cast valido (Eddie Redmayne eccessivamente esaltato che, nel suo compito, si limita a fare una eccelsa e perfetta caricatura di Stephen Hawking), delle musiche piene di viole, archi e impostazione minimale nelle strofe e nella composizione, una fotografia che capirai, cosa vuoi dirgli, è inglese quindi è bella e, in ultimo, una ricostruzione storica (per quanto poco si vada indietro negli anni) davvero niente male. Le pecche sono due, la prima è che il film è ambientato in un arco temporale di circa vent'anni (ipotizzo, non ci sono riferimenti cronologici nella pellicola) ma i personaggi non sembrano mai invecchiare, facendo scivolare la storia in un incredibile eterno presente. La seconda, invece, è la peggiore di tutte, la regia: con un cast così valido (niente di eccelso, per carità, ma pur sempre un ottimo gruppo di attori molto buoni) e una messa in scena ben costruita, James Marsh preferisce insistere sugli ostinati dettagli delle mani e dei piedi di Stephen Hawking, il povero malato che deve combattere contro la malattia del motoneurone. Perdonate il sarcasmo velato, ma spiattellare in continuazione davanti agli occhi del pubblico gli arti del protagonista che degenerano cercando disperatamente di commuovere chi sta guardando, ammiccando con quei dettagli così ripetuti e proposti in continuazione creano in realtà l'effetto contrario: se l'intento è quello di rendere lo spettatore partecipe alle difficoltà del nucleo familiare di Hawking, con questo espediente non si fa altro che sottolineare la falsità di ciò a cui si sta assistendo, palesando continuamente la presenza della macchina da presa. Si sopportano le sviolinate di Jòhann Jòhannsson e delle sue musiche, i dialoghi a tratti eccessivamente costruiti, i riferimenti religiosi e i simbolismi cristologici (croci, croci ovunque! Perfino nel giardino di Sua Maestà la Regina!), ma non si può sopportare la regia e, in parte, il montaggio di Jinx Godfrey che vuole a tutti i costi enfatizzare la già citata malattia del motoneurone che lascia degenerare progressivamente gli arti del protagonista. Questa scelta non solo infastidisce lo spettatore, ma addirittura rende vani tutti gli sforzi degli attori che, nonostante l'impostazione classica, risultano sensazionali nei troppo pochi primi piani che vengono loro offerti (Felicity Jones è stupenda nel suo intento di trattenere le lacrime e stringere in continuazione i denti, e di Redmayne se ne è parlato anche troppo). In sostanza una deludente occasione sprecata, che non sfrutta il suo vero potenziale, anzi lo nasconde per strizzare in ogni momento l'occhio allo spettatore cercando di convincerlo a piangere, cosa che non accade mai.
Magazine Cinema
Le prime settimane del 2015 hanno visto susseguirsi sul grande schermo una serie di biopic uno dietro l'altro, da quelli d'autore (Tim Burton e Clint Eastwood, più o meno validi, ai posteri l'ardua sentenza), a quelli da Oscar come The imitation game e, in ultimo, questo La teoria del tutto di James Marsh. La differenza tra i due sopracitati? Uno è ben fatto, l'altro no. Intendiamoci, il film non sarebbe neanche questo male assoluto e, con un timoniere differente, sarebbe risultato semplicemente il classico film biografico ammiccante e arraffa-premi, con un cast valido (Eddie Redmayne eccessivamente esaltato che, nel suo compito, si limita a fare una eccelsa e perfetta caricatura di Stephen Hawking), delle musiche piene di viole, archi e impostazione minimale nelle strofe e nella composizione, una fotografia che capirai, cosa vuoi dirgli, è inglese quindi è bella e, in ultimo, una ricostruzione storica (per quanto poco si vada indietro negli anni) davvero niente male. Le pecche sono due, la prima è che il film è ambientato in un arco temporale di circa vent'anni (ipotizzo, non ci sono riferimenti cronologici nella pellicola) ma i personaggi non sembrano mai invecchiare, facendo scivolare la storia in un incredibile eterno presente. La seconda, invece, è la peggiore di tutte, la regia: con un cast così valido (niente di eccelso, per carità, ma pur sempre un ottimo gruppo di attori molto buoni) e una messa in scena ben costruita, James Marsh preferisce insistere sugli ostinati dettagli delle mani e dei piedi di Stephen Hawking, il povero malato che deve combattere contro la malattia del motoneurone. Perdonate il sarcasmo velato, ma spiattellare in continuazione davanti agli occhi del pubblico gli arti del protagonista che degenerano cercando disperatamente di commuovere chi sta guardando, ammiccando con quei dettagli così ripetuti e proposti in continuazione creano in realtà l'effetto contrario: se l'intento è quello di rendere lo spettatore partecipe alle difficoltà del nucleo familiare di Hawking, con questo espediente non si fa altro che sottolineare la falsità di ciò a cui si sta assistendo, palesando continuamente la presenza della macchina da presa. Si sopportano le sviolinate di Jòhann Jòhannsson e delle sue musiche, i dialoghi a tratti eccessivamente costruiti, i riferimenti religiosi e i simbolismi cristologici (croci, croci ovunque! Perfino nel giardino di Sua Maestà la Regina!), ma non si può sopportare la regia e, in parte, il montaggio di Jinx Godfrey che vuole a tutti i costi enfatizzare la già citata malattia del motoneurone che lascia degenerare progressivamente gli arti del protagonista. Questa scelta non solo infastidisce lo spettatore, ma addirittura rende vani tutti gli sforzi degli attori che, nonostante l'impostazione classica, risultano sensazionali nei troppo pochi primi piani che vengono loro offerti (Felicity Jones è stupenda nel suo intento di trattenere le lacrime e stringere in continuazione i denti, e di Redmayne se ne è parlato anche troppo). In sostanza una deludente occasione sprecata, che non sfrutta il suo vero potenziale, anzi lo nasconde per strizzare in ogni momento l'occhio allo spettatore cercando di convincerlo a piangere, cosa che non accade mai.
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