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Stiamo per giungere quasi a metà film, Stephen Hawking ha appena ricevuto il dottorato e sta festeggiando a cena insieme alla moglie e ai suoi amici. La sua malattia è già in stato avanzatissimo e non gli consente più nemmeno di mangiare autonomamente. La fatica di afferrare con la forchetta il cibo nel piatto si disperde pian piano in lui quando con lo sguardo inizia a scrutare intorno chi non ha alcun tipo ti problema a svolgere la medesima azione. A questo punto la nostra immaginazione si lascia andare a un immaginario condiviso, e cioè che quella che stiamo per vedere sarà sicuramente una scena dai risvolti rabbiosi, con Hawking che schiacciato dal peso del suo dolore si sfogherà, magari, gettando il suo piatto a terra e provocando imbarazzo e dolore a chi è li per celebrarlo e mostrargli affetto. Eppure nelle mani del regista James Marsh tutto ciò ha il pregio di riuscire a prendere una piega totalmente diversa, trasformandosi nel colpo di genio migliore della pellicola, e assicurando una serietà di intenti rassicurante e ben accetta.
Che i biopic al cinema ultimamente facciano rabbrividire d'altronde non è una scoperta, ma rispetto alla massa "La Teoria Del Tutto" porta con sé quella maturità consapevole di voler raccontare un personaggio straordinario senza calcare troppo la mano per osannarlo ulteriormente. Al contrario infatti Marsh è assai più attento a illuminare i tratti di una storia d'amore intensa e travagliata, tenuta in piedi ad ogni costo da una donna eccezionale, forte e indistruttibile come Jane Hawking: indispensabile, poi capiremo, nella (e per la) vita e nella carriera del marito. Senza di lei - non è un mistero - ogni evento sarebbe andato diversamente, senza di lei probabilmente non ci sarebbe stato il bisogno di raccontare nulla e senza il suo rilievo, quella di Marsh sarebbe stata una pellicola scarica e molto, molto meno intrigante del previsto. Paradossalmente allora è un romanticismo a tinte lievi e distintivo a trasmettere emozioni e a colorare i spaccati e i traguardi reali di un grande genio, ma soprattutto di un grande uomo, quel romanticismo in grado di non trasbordare mai di miele o di zucchero e di servirsi esclusivamente di umanità e amore per rivelarsi ai nostri occhi autentico così come rarissimo.
Ciò che ottimamente riesce a compiere "La Teoria Del Tutto", dunque, è dipingere, attraverso i sentimenti, una figura anormale per definizione come fosse l'essere umano più classico e comune per eccellenza: che nonostante i due anni di vita diagnosticati in giovane età, a seguito della malattia del motoneurone, ha continuato a vivere e ad avere al suo fianco moglie, figli, lavoro e amici, nonché un autoironia di base che ha portato sempre dentro, in ogni istante. Eddie Redmayne dal canto suo è straordinario ad immergersi anima e cuore in una pelle e in una vita tanto complessa e dura come quella del suo personaggio. La mutazione da lui compiuta è chiaramente una delle più complicate e dure portate al cinema negli ultimi anni, mentre la sua interpretazione è equilibrata al millimetro per non risultare né eccessiva e né limitata.
Se c'erano trappole (e fidatevi, ce ne erano un infinità) insomma Marsh è stato fenomenale a schivarle in blocco, lasciandosi andare, forse, solo leggermente nella parte conclusiva e nella scena di chiusura, dove la sua pellicola perde un pizzico di aderenza e si concede a una retorica non fastidiosa ma evidente. Ciò non impedisce tuttavia a "La Teoria Del Tutto" di centrare il suo obiettivo principale, evitando la semplice etichetta di biopic e andandosi a prendere quella si grande storia d'amore se vogliamo persino con un minimo di coraggio. Quello iniettato con sicurezza e cura da una sceneggiatura caparbia (scritta da Anthony McCarten e basata sul romanzo di Jane Hawking "Travelling to Infinity: My Life With Stephen") e da una regia asciutta e misurata.
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