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La teoria sulfurea delle storie da diporto.

Creato il 12 giugno 2012 da Massimoconsorti @massimoconsorti

La teoria sulfurea delle storie da diporto.

Questo è lo scatto che ha cambiato la mia vita.

Almeno due dei quattro lettori e mezzo del blog, mi hanno scritto denunciando la crisi di astinenza da analisi “consortiane”, che poi sarebbero i commenti alla politica con i quali vi ho ammorbato fino a ieri, che mi hanno procurato però la bellezza di 100mila, diconsi centomila contatti: una soddisfazione! Io no, non la sento, la mancanza. La politica si fa (si dovrebbe fare) per passione, fatto che non esclude necessariamente altre passioni, quando ci sono, perché se non ci sono più credo sia inutile starne a parlare. La politica, insomma, secondo me è la somma di fattori che, se ne salta uno, saltano tutti. Questo non significa che non continuerò a dare degli “asini” ai leghisti né della Sturmtruppen alla Merkel né del “Nano Bifronte” a Silvio o del “birra e salsicce in solitudine” a Bersani, perché ce l’ho nel dna il vezzo di voler capire e di rompere le palle. Ho l’impressione che questa particolarità me la porterò appresso fin quando mi sarà concesso di battere le dita su una tastiera, però significa anche che, siccome la stanchezza “dentro” è una bruttissima consigliera, o mi riprendo un po’ o sarò costretto ad arrendermi e allora: viva Travaglio. Così ho deciso, per il momento, di tuffarmi nelle storie di ognuno di noi, delle persone che incontro per caso, di quelle che frequento volutamente e di quelle che mi colpiscono per uno sguardo, un’alzata di spalle, una parola ascoltata distrattamente, una frase che sembra buttata là per uno strano impiccio del destino. Mi sono accorto che c’è più politica in una storia sbagliata come quella di Tonya, o di Sandra, che non in cento discorsi di Di Pietro o di chi lo scimmiotta, e che tutto il mondo, politica compresa, gira intorno a una sola parola: umanità. Se togliamo quella ci resta poco, anche perché essere “umani” significa gioire e soffrire, piangere e ridere, cantare e ballare o bestemmiare al cielo una disperazione devastante, gestire il mondo o girare a vuoto intorno a se stessi, emozionarsi ed emozionare perché non c’è nulla di più appagante che procurare emozione alle persone che ti leggono, con le quali parli, che tenti di abbracciare senza il terrore di essere respinto e di chi riesce a farti volare magari con un mezzo sorriso e una stretta di mano data con il cuore. Di questo vorrei parlare, delle storie, giuste o sbagliate che siano, perché solo attraverso le storie si capisce il mondo che stiamo momentaneamente percorrendo con in tasca un biglietto di sola andata. Alla politica lascio i post-it, un vaffanculo di razza, una massima sentenziosa, un aforisma. Nel paese di Tomasi di Lampedusa, cari amici, sembra che tutto sia destinato a cambiare ma non cambia nulla e allora attrezziamoci, tutti insieme. Studiamo, approfondiamo, guardiamo con attenzione, critichiamo, informiamoci continuamente perché ci formeremo giorno dopo giorno e in quel momento, quei quattro disperati che pensano di sapere di politica perché sfogliano distrattamente le homepage dei quotidiani, se ne andranno finalmente, inesorabilmente affanculo. Quello è il loro regno, quello l’habitat che la storia ha immaginato per gli idioti, utili e inutili. Quello è il regno che non frequenterò mai neppure se mi coprissero d’oro e a me, dell’oro, non me ne frega una mazza. Continuo a preferire il mio pensiero libero perché io, come voi, libero ci sono nato, voglio restarci e soprattutto morirci. Ecco sì, morire di libertà.

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