Una storia che parrebbe surreale, se non fosse vera, quella narrata da Giulio Milani, scrittore e direttore della casa editrice Transeuropa, ne La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri. Stiamo parlando di quello che una tv tedesca, che ha girato un documentario nella zona, ha definito il «più grave disastro ambientale d’Europa».
Milani ripercorre la condizione di continuo sfruttamento del territorio di Massa Carrara, quella zona dell’alta Toscana che il Fascismo aveva ribattezzato Apuania, dal nome dei monti che la circondano e che ospitano le cave di marmo cui si continua ad attingere a piene mani.
Durante il periodo fascista, però, il settore lapideo cessò di essere la gallina dalle uova d’oro, a seguito delle sanzioni internazionali contro il regime di Mussolini. Nel 1938 si decise pertanto che fosse necessario costruire una zona industriale nei pressi del polo cittadino. Là proliferarono, nei successivi cinquant’anni, gli stabilimenti killer di cui tratta Milani, fabbriche rabberciate che versavano in condizioni di sicurezza pari a zero.
Il primo laboratorio omicida della lista fu la Rumianca, stabilimento che produceva diserbanti, formaldeide e anidride solforosa. Negli anni ha cambiato varie denominazioni (Rumianca, Anic Agricoltura, Enichem) e nel 1984 venne chiusa in seguito a un’esplosione. Era soprannominata la «fabbrica dei veleni», scrive Milani, con circa settecento operai morti di cancro e solo una dozzina di sopravvissuti. La qualità della vita era gravemente inficiata, la pelle assumeva colori e odori a seconda delle sostanze manipolate senza alcuna protezione. Anche dopo essersi lavati, i lavoratori puzzavano così tanto, che uno di loro ricorda quando, una sera al cinema, la gente scappò per il tanfo insopportabile che emanava. Ma pur vedendo i loro colleghi morire, gli operai «attribuivano il decesso a una nuova malattia che si aggiungeva, tutto sommato, a quelle già conosciute, come la poliomielite, la spagnola ecc.»
Poi c’è stata la Farmoplant, del gruppo Montedison, produttrice degli stessi pesticidi dell’Union Carbide, la multinazionale responsabile del disastro di Bhopal in India, nel 1984. La Farmoplant assurse poi agli onori della cronaca come la «nuova Seveso», quando, una mattina del luglio 1988 esplose un serbatoio di pesticida Rogor: evento che portò poi alla chiusura degli impianti ma non certo alla bonifica del territorio.
Per molto tempo era stata prassi diffusa seppellire i rifiuti tossici nel territorio in discariche improvvisate o gettarli allegramente la notte nei torrenti che sfociano nell’Alto Tirreno. In seguito, ci si sbarazzò delle pericolosissime scorie anche tramite le ecomafie del Sud.
I prezzi di questa brutta faccenda sono stati elevati per la popolazione che vanta un’incidenza di tumori superiore alla media toscana del 12%. La consapevolezza di lavorare elementi pericolosi era maggiore tra gli operai della Farmoplant, ma la loro reazione è stata sempre quella di anteporre il lavoro alla propria vita e pur avendo ormai superato la miseria del primo dopoguerra, si diceva: “meglio morire di cancro che di fame”» .
Come se non bastasse il fatto di essere un territorio da bonificare integralmente, la provincia di Massa Carrara si trova oggi a fare i conti anche con il dissesto idrogeologico provocato dai detriti di marmo che scorrono nei torrenti principali e che contribuiscono a renderla ogni anno più a rischio di gravi fenomeni alluvionali.
La tecnologia di lavorazione del lapideo ha poi fatto passi da gigante, rispetto alle antiche tecniche di trasporto e segatura dei blocchi, tanto che le Apuane stanno letteralmente sparendo. Milani rende bene l’ammontare del danno quando afferma che «sono riusciti a portar via dalle montagne, negli ultimi vent’anni, l’equivalente di un’era geologica». Tutto questo provoca smottamenti e gravi danni ambientali. L’agghiacciante cortometraggio di Alberto Grossi, Aut Out, (puoi vederlo qui) dà un’idea dello scempio paesagistico e di questa povera montagna sventrata.
«Tra i cavatori questo senso dell’epica, dell’essere a contatto con la morte, del rischiare la vita tutti i giorni, crea uno stato d’animo da superuomo»: racconta Milani. L’atteggiamento del cavatore è molto simile a quello dell’operaio della Farmoplant, tanto che questa «minestra condita di fatalismo ed epica», come la definisce l’autore, pare appartenere ormai al vissuto della zona di Massa Carrara.Ecco, in sintesi, l’oggetto della ricostruzione accurata del libro. Ma c’è ben altro in queste pagine: c’è la passione di Milani per la ricerca ossessiva dei colpevoli e anche dei lavoratori collusi con la dirigenza, quelli che difendevano il presunto pane quotidiano, consapevoli di barattarlo con la morte e che oggi provano solo vergogna per aver taciuto.
E il bello de La terra bianca è il suo dipanarsi come un giallo con un finale a sorpresa. Milani ci racconta la storia di tre personaggi realmente esistiti, ognuno dei quali dotato di un eroismo sui generis, ma tutti legati da un filo rosso che l’autore insegue tenace, per suggerirci come mai l’esplosione alla Farmoplant si è verificata proprio quel giorno di luglio. Un evento tutto sommato risolutore perché ha fatto chiudere per sempre quel focolaio di morte, collocato in una terra nota non solo per il pregiato marmo statuario ma anche per essere la patria di anarchici, gente capace di gesti tanto estremi quanto coraggiosi.
La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri, Giulio Milani, Laterza, 2015