Kenenisa Bekele
“Town of runners” è il titolo di un documentario diretto dal regista britannico Jerry Rothwell che racconta la storia di due bambine etiopi, Hawii e Alemi, che vivono in una città unica al mondo, situata a 2800 metri d’altitudine: Bekoji. Per raggiungere questo luogo, che ha dato i natali a tanti fondisti di altissimo rango, si deve percorrere la dissestata e polverosa strada costruita durante l’occupazione coloniale italiana.
La stessa che innumerevoli volte ha calcato il più famoso degli atleti di Bekoji: Kenenisa Bekele, campione olimpico e mondiale sui 5mila e 10mila metri, nonché attuale detentore dei record mondiali e olimpici su entrambe le distanze. Bekele si è aggiudicato anche undici ori nel mondiale di corsa campestre.
Le donne di Bekoji, però, non sono da meno, come dimostrato da Tirunesh Dibaba, trionfatrice a Pechino sui 5mila e i 10mila metri. Tuttavia, da sempre, la località etiope sfodera olimpionici e vanta una percentuale a dir poco elevata: poco meno di ventimila abitanti e decine di atleti professionisti.
Viene spontaneo chiedersi come mai sin dalla più tenera età tutti si mettono in moto? Semplice, correre è una via d’uscita e di riscatto dalla miseria, per molti, l’unica a portata di mano. Dunque bisogna almeno provarci, come dimostrano le toccanti storie delle due giovanissime etiopi protagoniste della pellicola di Rothweel.
“Town of runners” è uno sguardo profondo verso l’Africa e sulla voglia di correre della sua gente, 85 minuti di immagini sull’ambiente in cui vivono, crescono e si allenano tanti campioni che hanno ancora come riferimento Abebe Bikila. Il leggendario atleta etiope che nel 1960 e nel 1964 vinse la maratona olimpica, trasformando la corsa sulla lunga distanza in una fonte di orgoglio nazionale.
Grazie alle gesta di Bikila, il fondo divenne una significativa metafora per esprimere la lotta sostenuta da tutto il continente africano per il riconoscimento di una propria dignità internazionale. Fu così che l’ex guardia del corpo dell’imperatore Hailé Selassié, divenne il simbolo dell’Africa che si liberava dal colonialismo europeo: la prima medaglia d’oro del continente africano alle Olimpiadi.
Come dimostra il documentario del cineasta inglese, a distanza di mezzo secolo, per i giovanissimi africani correre rappresenta l’opportunità, anche se minima, di sfuggire a una magra esistenza per inseguire il sogno del successo sportivo. E il destino ha voluto che proprio nel 1973, lo stesso anno della morte di Bikila, in una piccola fattoria a circa tremila metri sul livello del mare, nel villaggio di Asela, venisse alla luce un altro mito vivente dell’atletica mondiale: Haile Gebrselassie.
I suoi compaesani se lo ricordano ancora quando era un bambino timido, piccolo, magro come un chiodo che ogni giorno percorreva di corsa a piedi scalzi i 19 chilometri dal suo tucul alla scuola, tenendo stretti al torace libri e quaderni. Poi Haile è diventato ragazzo e non ha più fermato la sua corsa.
Nel 1980 gli capitò di ascoltare per radio la cronaca della vittoria, alle Olimpiadi di Mosca, del suo compatriota Miruts Yifter, medaglia d’oro nei 5000 e nei 10000 metri. Da allora per Haile correre divenne un’irrefrenabile passione che lo portò ad aggiudicarsi due ori olimpici (Atlanta 1996 e Sydney 2000) e quattro ori mondiali sulla distanza dei 10mila metri.
Nel 2007 a Berlino ha battuto il record del mondo della maratona, coprendo il percorso in 2h04’26’’. Come raccontano i cronisti sportivi, la sua non è mai stata una corsa elegante con Il braccio destro che spinge la falcata e il sinistro leggermente curvato verso il corpo, come dovesse portarsi ancora appresso i libri di scuola.
Fama e ricchezza non hanno cambiato più di tanto il campione etiope, che oggi ha quasi 40 anni e soffre di asma. Gebrselassie continua a vivere ad Addis Abeba dove allena una squadra di giovani che sognano di emulare le sue gesta. In questa avventura ha investito tutti i soldi guadagnati con l’atletica confidando nel fatto che lo sport può migliorare il futuro del suo popolo.
La grande corsa verso nuovi primati entusiasma l’intera nazione, il testimone è stato raccolto da altri corridori etiopi che sono saliti sul gradino più alto del podio olimpico, molto spesso donne. Star assolute che vanno ad aggiungersi a Tirunesh Dibaba, tra cui spiccano Derartu Tulu, vincitrice dei 10mila metri a Barcellona e a Sydney; Fatuma Roba, vincitrice nella maratona femminile ad Atlanta con il più ampio distacco della storia delle Olimpiadi; Meseret Defar, medaglia d’oro sui 5mila metri ad Atene e ai Mondiali di Osaka 2007.
Un firmamento di grandi stelle emerse come d’incanto dalle vallate che solcano questa sperduta terra del Corno d’Africa. Curioso osservare che gli ultimi fuoriclasse delle lunghe distanze provengono da un’area ben delimitata, larga appena un centinaio di chilometri, a sud di Addis Abeba: la provincia di Arsi sull’altopiano di Oromia, dove sorge Bekoji.
Qui, gli atleti sono ragazzi di campagna che non fanno uso di doping e non dispongono di attrezzature per allenarsi. Non conoscono il lusso delle palestre occidentali né i comfort dei campus keniani: si allenano sulla nuda terra. Può sembrare difficile spiegarsi tanti successi, ma c’è da tenere in considerazione che allenarsi tutti i giorni a quasi tremila metri di altezza offre un vantaggio naturale.
Grazie all’alta quota, i valori dell’ematocrito sono così elevati che possono incamerare più ossigeno ed anche la corporatura, in genere esile con gambe lunghe e sottili degli atleti etiopi, favorirebbe una corsa più economica a livello energetico favorendoli nella resistenza.
Ma questo non basta a chiarire l’enigma, poiché se fosse solo una questione di altitudine e di fisico, altri popoli di montagna dominerebbero le gare.