La tragedia di Marcinelle : per due memorie di Lucetta Frisa
Sulla tragedia di Marcinelle aveva scritto, nel 2003, Monica Ferretti. Forse lei è stata la prima a pensare e a realizzare a riguardo un libro-documento che suona come una testimonianza d’accusa, in quanto solo da poco tempo, nel blog La poesia e lo spirito, ho scoperto il libro di Paolo di Stefano pubblicato quest’anno e intitolato La catastròfa di Marcinelle. Libro che non ho letto e quindi non sono in grado di stabilire confronti. Anche lui, come Monica, ma diversi anni dopo di lei, è andato personalmente sul posto della tragedia e poi in Abruzzo a intervistare i parenti delle vittime. Dico questo per rispetto della verità. E non solo perché ho conosciuto Monica, ragazza molto intelligente dalla vita travagliata, assetata di vita e di volontà di affermarsi come scrittrice, di costruirsi una strada autonoma nella società degli uomini.
Queste pagine,che traggo dal’introduzione del suo libro intitolato Gueules noires (Musi Neri) del 2003 che ebbe due edizioni, non le dedico quindi solo ai morti di Marcinelle ma anche alla memoria di Monica, nata e vissuta a Genova fino alla sua repentina e prematura scomparsa avvenuta nell’aprile del 2004. Purtroppo la sua ricerca sui flussi migratori dagli anni ‘50 e oltre è rimasta incompiuta.
Il testo è scritto in modo dinamico, ben documentato, davvero avvincente. Sarebbe bello ma impossibile riportarlo tutto in questa sede. Mi limiterò all’Introduzione che almeno ci restituisce seppure molto parzialmente un’idea generale degli intenti che hanno sostenuto la stesura di un libro così particolare. Per scriverlo, ci confessò Monica, si relegò in casa tagliando i ponti col mondo esterno. Voleva dedicarsi in modo assoluto a rivivere la tragedia e a non pensare né occuparsi d’altro. Un evento di simile entità richiede dedizione, oltre che attenzione e molto silenzio: come ad assistere ad un rito religioso, alla sacralità di una lunga sepoltura che viene reiterata lungo il corso della sua narrazione. Ma sappiamo che lo scopo non è la sepoltura dell’evento ma esattamente il suo opposto: il disseppellimento.
Dall’introduzione a Gueules Noires (Musi neri), Nonsoloparole, coll. I narranti-saggi e pensieri, Cuneo 2003.
L’8 agosto 1956, a Marcinelle, in Belgio,ebbe luogo uno dei più terribili incidenti minerari della storia recente. Nel rogo della miniera del Bois du Cazier morirono 262 uomini, 136 dei quali erano lavoratori italiani reclutati per quella che passerà alla storia come la guerra del carbone.
Rievocare oggi, a quasi mezzo secolo di distanza,questo episodio non permette soltanto di rappresentare le condizioni di vita e di lavoro degli emigranti italiani durante il secondo dopoguerra, ma offre anche alcuni spunti di riflessione sull’esercizio della memoria in questo paese, sul fenomeno dell’immigrazione in Italia, e dei conflitti sociali che qui esso produce.
La tragedia di Marcinelle, come molte altri catastrofi della nostra storia, presenta dei lati oscuri che rendono più difficili sia la ricostruzione storica sia l’accettazione dell’avvenimento in sé.
L’imprecisione dei dati e talune ricostruzioni sono più utili a confondere che chiarire una pagina di storia già molto trascurata e che, forse, di preferirebbe far dimenticare. I protagonisti del disastro del Bois du Cazier non hanno subito soltanto le vessazioni cui spesso sono sottoposti i lavoratori stranieri in qualsiasi paese: costretti ai lavori più umili e, talvolta, vittime di episodi di razzismo: in questo caso sono stati soggetti a qualcosa che rende ancora più odiosa questa vicenda, qualcosa che getta un’ombra inquietante su quegli accordi bilaterali tra nazioni che spesso ci vengono presentati come esempio del progredire della civiltà e della collaborazione tra i popoli. In pratica, ciò che si cerca di nascondere quasi con accanimento,è la compravendita di esseri umani, di uomini trattati come merce, da un governo che aveva, il compito semmai di proteggerli. Tutto questo è accaduto, non in un remoto passato durante il quale la schiavitù non era vissuta come un crimine nei confronti dell’umanità, ma nella seconda metà del secolo appena conclusosi,mentre era ancora forte il trauma dell’olocausto e mentre si andava al perfezionamento della Carta dei Diritti dell’Uomo.
Vi è poi la reale necessità di restituire dignità e visibilità a quei lavoratori che ci hanno permesso di diventare uno dei paesi più industrializzati dell’Occidente.
Tempo fa, leggendo un’intervista fatta ad un insegnante veneto a proposito della sensibilità, all’interno del sistema scolastico,sul tema dell’emigrazione (il Veneto è una di quelle regioni italiane che hanno pagato un prezzo pesantissimo a questo fenomeno), ho scoperto qualcosa su cui vale la pena di riflettere. Siamo un po’ tutti portati a pensare che la conoscenza della storia dell’emigrazione italiana sia ben radicata nel nostro paese,che se ne conoscano i tempi e i modi, quanti nostri connazionali ha coinvolto ed in quale maniera, ma la realtà non giustifica questa convinzione. Da un sondaggio effettuato qualche anno fa proprio tra gli studenti delle scuole superiori del Veneto emerge la convinzione che gli italiani, nel periodo compreso tra gli anno ’40 e gli anni ’70, si siano recati all’estero unicamente per turismo e che il prototipo del tipico emigrante italiano sia incarnato da Gianluca Vialli.
Eppure è raro trovare in Italia una famiglia che non abbia almeno uno dei suoi membri residente in un’altra nazione, quasi ognuno di noi ha avuto un nonno, uno zio o un cugino che, in tempi più o meno lontani, è partito per andare a cercare fortuna altrove. Ma il ricordo di questa diaspora, che ha coinvolto milioni di italiani ed ha svuotato di risorse umane migliaia di piccoli paesi sul nostro territorio, sta svanendo completamente.
Certo, a nessuno piace rievocare un passato fatto di miserie e di fame, ma questo strappo nella nostra memoria storica è preoccupante per il nostro futuro e non rende giustizia a coloro che hanno vissuto questa esperienza in prima persona. Al contrario, alimenta l’amarezza contenuta nelle parole di un anziano minatore che ancora risiede in Belgio e che sintetizza così il suo stato d’animo e quello dei suoi compagni “…qua noiatri diciamo che l’Italia ci ha venduto per 50 chili di carbone…il vecchio governo che c’era allora… Ci sentiamo anche un po’ abbandonati dall’Italia…” Parole amare, dure persino, parole di chi è lasciato solo e si sente dimenticato.
In quest’opera di cancellazione della memoria nazionale non vi è solo l’incuria di chi non vuole ricordare, gli Stati ed i Governi hanno la loro responsabilità. Nel caso specifico di Marcinelle, vi è tutta una parte di documentazione che non viene resa pubblica- ad esempio quella contenete i dati relativi agli incidenti in miniera che, secondo le associazioni sindacali di categoria, sarebbero ben superiori a quelli contenuti nelle cifre ufficiali, o i documenti processuali resi indisponibili anche quando a richiederli è una delle associazioni che rappresentano la maggioranza dei lavoratori italiani in Belgio, come le Acli. Questa forte resistenza da parte istituzionale quando si chiede di poter prendere visione del materiale d’archivio non stupisce se si comincia a scavare sotto le versioni più o meno ufficiali dell’accaduto e si scoprono le pesanti responsabilità delle due nazioni coinvolte in questa vicenda rispetto alle condizioni di vita e di lavoro dei nostri emigranti.
Tutte queste ombre sul nostro passato non possono essere cancellate da un piccolo libro, ma spero che le testimonianze raccolte e riportate in questo testo possano comunque rappresentare un contributo al recupero della nostra memoria ed uno stimolo per continuare a ricercare le origini della nostra attuale situazione sociale ed economica.
Pur non avendo quindi, la pretesa di essere esaustivo su un argomento tanto vasto, Geules noires cerca di narrare una storia simbolo di tante altre storie più o meno conosciute, più o meno dimenticate, restituendo il più possibile voce a chi da tempo non è più ascoltato.*
*Per saperne di più dell’autrice e sul percorso pubblico del libro, cliccare su http://www.leariedeltempo.it/
e successivamente sull’icona “Monica Ferretti”.