Solo così si possono comprendere forse le incontrollate manifestazioni di sconforto, i pianti a dirotto e le isterie collettive, seppur molto contenute e pudiche, che hanno accompagnato l’umiliante sconfitta della nazionale verdeoro al mondiale giocato in casa. Per un popolo che guarda sempre e solo sorgere il sole, spuntare da quell’oceano che ricorda a molti di loro la rotta verso casa, in una saudade geograficamente infinita, non deve essere stato facile veder tramontare, frantumato sotto i colpi dei panzer tedeschi, il senso più profondo della propria identità nazionale. Complementare alla malinconia portoghese che guarda un oceano che fu proprio regno ed ora, metaforicamente, è solo dove muore il sole, la saudade brasiliana, invece, è atavica, trans-umana, replica la deriva dei continenti, e ancor più lo sradicamento per il selvaggio. Non si tratta tanto di vincere o perdere. Non fa ancora parte, o perlomeno non è ancora così assoluta nel popolo brasiliano, la cultura del risultato. Del vincere a qualsiasi costo, dei mezzi adeguati ai fini. Quella è ancora, anche se piano piano sta calpestando ogni estetica “bonita”, un sentimento da occidentali, da schiavisti, che sta però velocemente attecchendo anche nei pochi degeneri “vincenti” fautori del Brasile-Brics. C’è stata forse nella storia del calcio una nazionale più brasiliana delle altre, benché al contempo così lontana da un certo tipo di Brasile naif, persino europea. Forse non la più forte di sempre (i paragoni col pentagono vincente del 70, quello formato da Jairzinho-Pelè-Rivelino-Tostao-Gerson, lasciano quantomeno spazio alla vis polemica), di certo la più bella esteticamente, almeno in potenza. La storia dell’“auriverde” dell’82 fu qualcosa più di un’epopea pallonara. Fu una tragedia nel senso aristotelico della qualificazione, greco-classico, ove si fronteggiavano la volontà e la necessità, il riconoscimento della determinazione dall’esterno e l’impulso volitivo a determinarsi in forma propria. La fragile e fulminea favola della selezione guidata da Telé Santana nasce già nel gironcino sudamericano (4 vittorie in 4 partite), ma è nella tournée pre-mondiale che nasce il mito, e con esso pure la successiva caduta: Zico e compagni battono per ben due volte la Germania Ovest, poi tocca alla Spagna organizzatrice, e infine rifila un netto 7 a 0 all’Eire. Quel Brasile vinse senza troppi problemi anche il proprio girone ai mondiali, non tra i più scontati dato che dovette affrontare la temibile Unione Sovietica, la Scozia di Dalglish e Souness e infine lo sparring partner Nuova Zelanda.
Solo così si possono comprendere forse le incontrollate manifestazioni di sconforto, i pianti a dirotto e le isterie collettive, seppur molto contenute e pudiche, che hanno accompagnato l’umiliante sconfitta della nazionale verdeoro al mondiale giocato in casa. Per un popolo che guarda sempre e solo sorgere il sole, spuntare da quell’oceano che ricorda a molti di loro la rotta verso casa, in una saudade geograficamente infinita, non deve essere stato facile veder tramontare, frantumato sotto i colpi dei panzer tedeschi, il senso più profondo della propria identità nazionale. Complementare alla malinconia portoghese che guarda un oceano che fu proprio regno ed ora, metaforicamente, è solo dove muore il sole, la saudade brasiliana, invece, è atavica, trans-umana, replica la deriva dei continenti, e ancor più lo sradicamento per il selvaggio. Non si tratta tanto di vincere o perdere. Non fa ancora parte, o perlomeno non è ancora così assoluta nel popolo brasiliano, la cultura del risultato. Del vincere a qualsiasi costo, dei mezzi adeguati ai fini. Quella è ancora, anche se piano piano sta calpestando ogni estetica “bonita”, un sentimento da occidentali, da schiavisti, che sta però velocemente attecchendo anche nei pochi degeneri “vincenti” fautori del Brasile-Brics. C’è stata forse nella storia del calcio una nazionale più brasiliana delle altre, benché al contempo così lontana da un certo tipo di Brasile naif, persino europea. Forse non la più forte di sempre (i paragoni col pentagono vincente del 70, quello formato da Jairzinho-Pelè-Rivelino-Tostao-Gerson, lasciano quantomeno spazio alla vis polemica), di certo la più bella esteticamente, almeno in potenza. La storia dell’“auriverde” dell’82 fu qualcosa più di un’epopea pallonara. Fu una tragedia nel senso aristotelico della qualificazione, greco-classico, ove si fronteggiavano la volontà e la necessità, il riconoscimento della determinazione dall’esterno e l’impulso volitivo a determinarsi in forma propria. La fragile e fulminea favola della selezione guidata da Telé Santana nasce già nel gironcino sudamericano (4 vittorie in 4 partite), ma è nella tournée pre-mondiale che nasce il mito, e con esso pure la successiva caduta: Zico e compagni battono per ben due volte la Germania Ovest, poi tocca alla Spagna organizzatrice, e infine rifila un netto 7 a 0 all’Eire. Quel Brasile vinse senza troppi problemi anche il proprio girone ai mondiali, non tra i più scontati dato che dovette affrontare la temibile Unione Sovietica, la Scozia di Dalglish e Souness e infine lo sparring partner Nuova Zelanda.
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