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Questa, in sintesi, la trama di una delle opere più popolari di Giuseppe Verdi. Un'opera tanto amata che desta ogni volta tutta una serie di aspettative e di polemiche, preventive e non, tanto più che per problemi di bilancio aziendale questo spettacolo sostituisce quello che sarebbe stato l'ultimo capitolo del Ring wagneriano (quasi una beffa), rinviato - come il Sigfried - a data da destinarsi (dicono 2015, speriamo). C'era, dunque, da aspettarsi, anche stavolta che una produzione - come quella in scena al Teatro Massimo di Palermo - attirasse sì una quantità notevole di spettatori, ma provocasse le consuete reazioni indignate. Certo non aiuta una regia - quella di Laurent Pelly - che, se non è mal pensata o mal eseguita, è comunque mal riproposta: debole, priva di fascino, ma soprattutto priva di significato e di emozioni. Pochissimi spunti, mal assemblati, e allusioni piuttosto facili su una scena che sembra un cimitero cubista, a sottolineare (inutilmente) l'ineluttabilità della morte dietro il piacere e l'amore (sarebbe bastata una Vanità secentesca a questo scopo). Se a questo si aggiunge una direzione (di Maurizio Beltrami) lenta e piatta, priva di brio e con qualche volume discutibile, direi che sul piano teatrale questa Traviata soffre molto. E, a scanso di equivoci, va detto che non è necessario ripescare in magazzino scene e costumi storici o fare nuove ricerche d'archivio per centrare il punto di un testo, di un'opera: la filologia musicale non impone un'esecuzione pedissequa delle didascalie di un libretto, bensì una riproposizione attuale del suo senso originario. Cosa emerge di nuovo o almeno di compiuto da questa Traviata?
Il cast, si dirà. E qui, il pubblico palermitano ha due carte importanti da giocarsi: opera destinata quant'altre mai alla protagonista, La Traviata sfodera qui nel rôle-titre la nostra Desirée Rancatore, soprano senz'altro fuori parte sul piano vocale, ma ostinata a cambiare repertorio e, obiettivamente, capace di regalare uno splendido terzo atto e un buon secondo atto. Certo, il suo ingresso in scena non m è piaciuto e non mi convincono i suoni fino al brindisi, ma onore al merito di rinnovarsi, a patto però che il soprano palermitano non rinunci a quei ruoli che l'hanno resa celebre (e per certi aspetti ormai di riferimento) in tutto il mondo e appartengono, che lei voglia o no, a tutt'altro repertorio. Palermitano anche il baritono Vincenzo Taormina, che canta bene, ma ha un timbro chiaro e un po' metallico che non mi convince e non mi piace; in più, in scena appare piuttosto ingessato, non solo per l'odioso ruolo da ipocrita che gli è toccato in sorte (magari invece è anche colpa di questa bizzarra messa in scena). Poco interessante l'Alfredo di Stefano Secco, che ha senz'altro un bel timbro, ma interpreta poco sia sul piano teatrale (il suo io son felice del primo atto dice tutto) ed è troppo cauto sul piano vocale, tranne una discreta prova nella sua aria del secondo atto (De' miei bollenti spiriti), eseguita con buon piglio concertistico. Se i comprimari a loro volta non brillano, direi che il successo di quest'opera è tutto di repertorio e di affetto locale. Dunqu capisco bene, a prescindere dalla tifoseria interna, l'entusiasmo per il soprano, che io in questo caso non condivido, ma è e rimane un fatto incontestabile, come la sua superiorità sul resto dello spettacolo.
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