“La Traviata”, il nuovo allestimento di Ferzan Özpetek: in scena dal 23 marzo al 3 aprile al Teatro Petruzzelli, Bari

Creato il 01 aprile 2014 da Alessiamocci

In scena dal 23 marzo al 3 aprile al Teatro Petruzzelli di Bari il nuovo allestimento de “La Traviata“, una Produzione Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli in coproduzione con la Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli.

La Violetta di Özpetek si consuma nei salotti di un inizio novecento che gode degli odori e dei colori dell’oriente, tra cuscini ricamati in stile ottomano e lanterne dalla luce morbida.

Sul fondale dell’atto primo, al centro, uno specchio che riflette l’immagine del Maestro Daniele Rustioni che dirige l’Orchestra del Teatro Petruzzelli. Quello di giocare con l’immagine riflessa del Direttore è un modo raffinato e suggestivo per far intendere allo spettatore che il dramma asseconda con la sua grazia terribile la razionalità del regista-demiurgo e della musica di Verdi: non solo una essenziale esecuzione nel rispetto dello spartito, ma anche una precisa scelta di regia nell’assorbire l’intenzione musicale del grande compositore e renderla attraverso la propria sensibilità.

Özpetek non ha semplicemente riallestito il libretto firmato da Francesco Maria Piave, ma ha calato la vicenda in un’atmosfera dagli echi proustiani, con un’attenzione e una cura particolare verso la psicologia dei personaggi che prendono tutti rotondità e spessore, acquistano tutti una vera e propria dimensione, persino nei momenti di maggiore coralità in cui a sostenere il pathos e la tensione interviene il Coro del Teatro Petruzzelli.

Fin dal principio si fa immediatamente evidente una certa puntualità nel seguire la traccia lasciata dallo stesso Verdi per riproporre la sua opera emotivamente più complessa. Mentre le note dell’overture riempiono il Teatro, Özpetek proietta sul boccascena un video-ritratto della protagonista: lo sguardo di Elena Mosuc che interpreta Violetta donandole forza e passione è carico di una tristezza e di una malinconia toccanti. La bellezza della donna più desiderata di Parigi è il volto dello splendore inesorabile che guarda la propria fine e chiede, disperatamente, di essere celebrato fino all’ultimo istante, è l’immagine della vita che non sa rinunciare alla sua forza, alla sua necessaria essenza.

Alfredo (Francesco De Muro) e Violetta si fanno la promessa di incontrarsi il giorno successivo alla festa durante la quale il giovane le ha rivelato la sua ammirazione e il suo amore, perché, oltre al desiderio, Alfredo prova per Violetta un amore profondo e inevitabilmente segnato da una certa tragicità.

Il giovane qui – e ancor di più nel secondo atto nell’incontro con il padre - non è il sempliciotto stupido irretito dal fascino della bella donna, la cui femminilità viene abitualmente tradita e offesa da uomini come il Marchese d’Obigny (Domenico Colaianni) che non sa offrire altro se non il vizio del sesso, ma è un uomo cosciente del proprio sentimento e pronto a rinunciare alla regole della società gretta e asfittica che si pavoneggia nelle sale ariose decorate a festa.

Il secondo atto è ancora carico di una certo estetismo di gusto orientale: le mezzelune islamiche sui pilastri dei cancelli che cingono i muri altissimi dell’idillio, della fuga dei due amanti, resteranno anche per la festa in casa di Flora (Annunziata Vestri), altro personaggio che con la risata cristallina e la presenza elegante rappresenta alla perfezione l’alta società viziata e orgogliosa di sé che si prende gioco della propria stessa fine con apparente ironia nascondendosi dietro una “joie de vivre” mai bastevole per dimenticare la fine imminente.

In questo hortus conclusus i due amanti hanno costruito uno spazio in cui rifugiarsi per dimenticare la realtà del mondo che rimane fuori, corrotto e calcolatore: abbandonato il folleggiare dei marchesi e delle contesse, hanno smesso di inebriarsi col fumo dei narghilè tra la porpora dorata e lo champagne per ritirarsi tra il verde e la luce ariosa della campagna.

Ma oltre, oltre le mura e le mezzelune che come una maledizione sono il segno di quel mondo a cui appartengono e che devono tuttavia affrontare alla festa di Flora, quello stesso folleggiare li richiama inesorabilmente: Giorgio Germont (Giovanni Meoni) costringe Violetta a lasciare Alfredo che, offeso e ferito nell’orgoglio, la seguirà a casa di Flora meditando la vendetta tra mattatori e ballerini in una scena ricca di colori e di immagini, assolutamente cinematografica.

Qui Dante Ferretti, che ha curato le scene, trasforma lo spazio: restano le mezzelune islamiche, ma a sottolineare l’impotenza di Violetta, chiusa ancora nella prigione dorata dei vizi e degli eccessi, è una scalinata immersa nell’oscurità e illuminata da pallide luci fredde. La tensione sale, Alfredo pagherà la donna, ne umilierà ancora una volta la femminilità, proprio lui, l’uomo più puro, l’unico che ne aveva amato la dolcezza e ne aveva compreso e svelato la delicatezza. A nulla servirà lo sdegno del padre e dei folleggianti: seppur pentito, Alfredo non potrà comprendere la prova d’amore di Violetta.

È tutto avvolto nell’oscurità. Violetta giace nel suo letto dalle lenzuola bianchissime, preda di spasmi atroci e di incubi che appaiono dall’oscurità. “Della Traviata ascolta il desio” prega la Violetta e la voce di Elena Mosuc colpisce per la precisione tecnica e la perfezione dell’interpretazione struggente. Alfredo giunge troppo tardi, la donna sta per morire. Giunge anche Giorgio Germont roso dal pentimento.

Il viso di Violetta pallido si macchia del suo stesso sangue: la tisi non le lascia che la forza di un ultimo abbraccio ad Alfredo. La tensione è tanto più forte nel contrasto tra luce e ombra: Violetta lotta, si alza dal letto, si crede pronta a vivere ancora, non vuole morire. Ma cade. La donna crolla esanime, alle sue spalle il sipario si richiude sulla scena e la allontana, separandola, dagli altri personaggi ormai soltanto spettatori della sua e della loro stessa fine.

La Traviata è, ora, così terribilmente vicina allo spettatore a sottolineare, ancora una volta, la potenza del Teatro che mentre confonde il confine fra illusione e realtà ci disorienta e ci obbliga alla riflessione: attraverso la ricostruzione di una realtà che si strugge nell’amore e nella morte, nel piacere venale e nella passione pura, nel dolore di essere vicini alla disfatta morale e fisica del proprio tempo senza sapere rinunciare a lottare, Özpetek dà forma e calore alla sua Traviata che vive di luci e di colori e si nutre di una musica prepotente e potente che non sa morire.

Written by Irene Gianeselli

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Teatro Petruzzelli


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