Quando si apre il sipario sul palco, al posto del salotto di Violetta appare il suo letto d’agonia. Secondo le intenzioni del regista della messa in scena del Teatro Massimo Bellini, Giuseppe Dipasquale, la narrazione della vicenda de La traviata deve avvenire attraverso il racconto dell’ultimo palpito di Violetta, come se i primi tre atti fossero contenuti nel quarto, come se il momento dell’agonia finale fosse la possibilità per rivedere la propria vita come in un sogno, mettendo indietro l’orologio dei ricordi. La traviata è forse l’opera verdiana che più si inserisce nell’alveo della tradizione melodrammatica convenzionale e ottocentesca: l’eroina, che ha vissuto una vita dissoluta, si innamora, decide di cambiare vita e alla fine si redime attraverso la morte. Eppure mentre assistevo alla splendida rappresentazione del Teatro Massimo Bellini, riflettevo sull’estrema modernità di questo racconto, che per certi versi è sempre più attuale. Del resto è questa la caratteristica comune a tutti i capolavori: non importa l’epoca nella quale li si colloca perché i sentimenti che l’autore vi ritrae appartengono agli uomini di tutti i tempi. Violetta non è la protagonista di un mito greco o di un racconto storico ma il suo personaggio è ispirato ad una donna realmente esistita, quella Marie Duplessis di cui si era innamorato Dumas figlio. È una di quelle ragazze che qualunque spettatore del tempo poteva riconoscere e la sua storia non è ambientata in un immaginario feudo cinquecentesco ma in un salotto borghese dell’Ottocento, di quelli noti e frequentati dagli appassionati di teatro dell’opera. Ecco spiegata l’estrema modernità dell’opera, che con la sua forte componente critica del presente, diventa uno specchio perfetto della malizia, del perbenismo e dell’ipocrisia della società dell’epoca. Il denaro e la corruzione morale accompagnano Violetta durante il percorso che la conduce alla morte. La falsità e il finto moralismo della società, che all’interno dei saloni da ballo accetta e condivide i comportamenti che al di fuori condanna, fanno da sfondo alla storia d’amore. Amore, sì. Perché anche una cortigiana che ha vissuto una giovinezza dissoluta può essere in grado di innamorarsi e di vivere onestamente.
Ma la comunità, con il suo perbenismo, non perdona, ed è così che Violetta muore due volte: muore di tisi – malattia romantica per eccellenza e sottilmente collegata all’amore nell’immaginario popolare – e muore sotto i colpi del giudizio morale e dei codici su cui si regge l’ordine sociale del tempo. L’operazione ideologica non lascia spazio a dubbi: i modelli di comportamento dei protagonisti non cozzano in nessun modo con quelli della società del tempo e i valori etico-sociali hanno il sopravvento su quelli personali-affettivi, ai quali si riconosce un’importanza relativa. Ma c’è anche una chiave di lettura diversa: Violetta rinuncia all’amore di Alfredo non tanto perché vuole proteggerlo dalla condanna sociale che inevitabilmente ricadrebbe su di lui, e nemmeno perché è stanca di essere vittima dei pregiudizi. Violetta rinuncia al suo unico amore perché spera che questo estremo gesto di rinuncia le dia una possibilità di redenzione; spera che il suo passato e gli errori che ha commesso siano cancellati da un atto di estrema abnegazione. Amore e morte sono i temi fondamentali dell’opera, e non è un caso che La traviata nelle intenzioni di Verdi doveva intitolarsi proprio Amore e morte, titolo poi censurato a favore di quello che fu accettato. Violetta è la protagonista assoluta, nella scrittura verdiana così come sul palco del Bellini; tutti gli altri personaggi, anche quelli più allegri delle scene corali, fanno solo da sfondo alla vicenda, in una cornice esageratamente festosa che sottolinea ancora di più la malinconia e la solitudine della protagonista. E allora la grettezza di Flora Bervoix, l’ostinazione di Germont padre nel separare i due amanti, perfino il clamore del Carnevale che impazza mentre Violetta è sul letto di morte, esaltano ancora una volta la statura morale della protagonista.
Lo spettacolo è riuscito ed è eccellente. Le scenografie, a cura di Antonio Fiorentino, sono tradizionali nell’impostazione ma originalissime nella realizzazione, con i quadri che si alzano e si abbassano sulla scena e sui quali sono impresse le diverse ambientazioni. Il giovane direttore Giampaolo Maria Bisanti dirige un’orchestra superlativa, che accompagna gli eventi sulla scena a volte con tono incalzante e vigoroso, altre in modo riflessivo e avvolgente. Ottima la prova di Daniela Schillaci nei panni di Violetta, perfetta sia nell’esecuzione tecnica che nell’impatto emotivo. Un po’ meno vigoroso Alfredo, che in questa occasione era il tenore turco Deniz Leone: troppo poco enfatica la sua esecuzione, troppo monolitica la sua interpretazione che lasciava poco spazio all’approfondimento psicologico del personaggio. La sua voce ha un timbro apprezzabile ma non è possente ed in alcuni passaggi è stata sopraffatta dalla musica. Assai buona la performance del Coro del Teatro Massimo Bellini che è riuscito a dare vita a delle scene di gruppo in cui si potevano leggere tutti i colori dei sentimenti in gioco: l’ipocrisia, il cinismo, la vuotezza di una gioia – esaltata nelle note del famoso brindisi a tempo di valzer Libiamo ne’ lieti calici – che è più di facciata che reale. Il sipario cala sulla tragica storia d’amore tra Violetta e Alfredo e nella mente restano impresse la tristezza e il dolore che pervadono l’intera “traviata”, ma l’ultima parola di Violetta, proprio sul fortissimo dell’orchestra, è “gioia”, non più intesa come lo sfrenato edonismo di cui lei era portavoce nel primo atto, ma come felicità per l’amore ritrovato, purtroppo effimera perché stroncata dalla morte.
Fotografie di Giacomo Orlando per il Teatro Massimo Bellini di Catania