Le ho respinte per anni, evitandole come la peste. Le vedevo ai piedi di ciellini, finto-alternativi, punkabbestia, comunisti riottosi -gente con la maglietta di Che Guevara e il conto in banca a sei zeri- e gesuiti convinti e mi disgustavano. Brutte, con quel plantare anatomico, mi sembravano adatte a un fanatico del cammino di Santiago de Compostela, non a una come me.
Poi, dopo anni di rivolte contro questa calzatura, la scorsa estate le vedo ai piedi di un’amica che mi assicura siano comode, brutte ma comode. Le compro: 55 euro spesi dietro questa calzatura da punkabbestia (deduco a questo punto che i punkabbestia siano fintamente poveri o ne comprino di contraffatte), pur riconoscendone l’immonda bruttezza. Le indosso, le porto, ci guido, le adoro e capisco perché siano così inflazionate: sono davvero comodissime.
Portano il piede a camminare in un modo nuovo -in un modo giusto- e quindi inizialmente sembra di essere un po’ instabili, ci si sente strani, si crea qualche vescichetta; poi ci si abitua alla “dunetta” di lato, all’infradito, alla striscia di pelle che stringe, alla bruttezza data da quella forma un po’ così.
Certo, non stanno bene con tutto, ma sono talmente comode che talvolta ci si dimentica degli abbinamenti e le si porta senza molto rimunginare.
Le Birkenstock, queste scarpe da samaritano ricco che non vedremo mai ai piedi di Chiara Ferragni o di Andy di Style Scrapbook, sono fantastiche a modo loro.
(vi vedo storcere il naso, ahimé, ma significa che non avete mai ficcato un piede dentro questi abomini estetici)
Il mio piede è reso tremendo dalla pavimentazione dell’Accademia, non dalla Birkenstock, e l’importante è credere a questo assioma.