Con un passato anni Settanta nell’ambito del varietà e degli spettacoli comici ed una carriera di attore e star della televisione consumata nel decennio successivo, il giapponese classe 1947 Takeshi Kitano, oggi rientrante tra gli autori della Settima arte maggiormente acclamati dalla critica, ha avuto l’occasione di debuttare dietro la macchina da presa soltanto nel 1989, anno in cui gli venne offerta la regia di Violent cop.
Pellicola che, originariamente, doveva essere diretta dal Kinji Fukasaku cui dobbiamo I gangsters non muoiono nel loro letto e Il fango verde, ha finito in maniera inevitabile per proporre una tipologia di film d’azione diversa dalle altre contemporanee dagli occhi a mandorla proprio grazie all’apporto del regista, che ha dichiarato: “Era una sceneggiatura tremenda. Dentro c’era di tutto, sparatorie ovunque… Lo sceneggiatore, visto il titolo, aveva esagerato. Sembrava un adattamento di Rambo, il protagonista entrava in scena da solo con una pistola nella mano destra e un fucile automatico nella sinistra”. Cose del genere… Così ho fatto rivedere un po’ il copione”.
Ed è lui stesso a concedere anima e corpo al poliziotto sociopatico del titolo, che, indagando sull’omicidio di uno spacciatore, si ritrova sulle tracce di un uomo d’affari a capo del racket della droga e di un collega e amico; fino al momento in cui, sospeso dall’incarico, continua da solo la sua ostinata vendetta dopo che la sorella appena uscita da una clinica psichiatrica è stata sequestrata, narcotizzata e seviziata dagli uomini di un killer.
Nel corso di quasi un’ora e quaranta di visione che, oltre a segnare l’ingresso kitaniano nel filone drammatico, ne delinea immediatamente stile e tematiche, tra camera prevalentemente fissa, realismo testimoniato anche dall’assenza di double gun fight ed esagerazioni tipiche del Sol Levante da schermo e personaggi da fumetto che sono, in fin dei conti, individui ridotti ad automi di un gioco più grande di loro.
Automi che, pur avendo un destino già segnato, hanno ancora la possibilità di scegliere il modo in cui morire o uccidere; come riscontrabile anche nel successivo Boiling point, datato 1990 e riguardante il giovane Masaki alias Masahiko Ono, che, mediocre giocatore di baseball e lavorante presso una pompa di benzina, si vede costretto ad escogitare qualcosa per salvare l’attività quando, risposto all’arroganza di uno yakuza con un pugno, provoca l’ira di un boss locale, offrendogli involontariamente il pretesto per chiedere un pizzo.
Un’opera seconda che, nel raccontare i tentativi attuati dal ragazzo, insieme ad alcuni amici, per procurarsi le armi necessarie, accentua ancora di più la tendenza da parte del futuro autore di Hana-bi – Fiori di fuoco a spostare l’attenzione sul piano filosofico ed esistenziale; man mano che al gruppetto di protagonisti si affiancano due criminali senza gang e che si approda ad un epilogo pirotecnico.
Ma solo a seguito dell’entrata in scena di tutt’altro che leggere dosi di violenza (nel mucchio, anche un dito mozzato), altro fondamentale ingrediente delle opere di un cineasta – presente anche nel ruolo di Uehara – che, in un certo senso, può quasi essere considerato un Jean-Pierre Melville contrario a seguire le regole del noir.
Del resto, con Sonatine a chiuderla, è proprio di una ideale trilogia noir che possiamo parlare, in quanto, sulla scia dei due precedenti, questo lungometraggio del 1993 – realizzato dopo la parentesi sentimentale de Il silenzio sul mare – non provvede a fare altro che a confermare ulteriormente i tratti della inconfondibile poetica dello yakuza movie director, qui impegnato ad incarnare Murakawa.
Un malvivente ormai economicamente agiato ed intento ad abbandonare la pericolosa e movimentata vita da gangster, quest’ultimo, che viene però obbligato dal suo capo ad andare nella lontana isola di Okinawa per mettere fine ad una guerra tra bande rivali.
Isola dove, come pure i suoi compagni, si rende conto di essere stato tradito, pensando prima alla fuga, poi ad attendere l’inevitabile sorte, pur senza una spruzzata d’ironia (citiamo solo la sequenza in cui, aspettando la morte, giocano con movenze da burattini sulla sabbia).
Quindi, un trittico traboccante durezza e che, costruito su lunghe attese e silenzi degni di Michelangelo Antonioni, RaroVideo provvede a racchiudere in un cofanetto costituito da tre dvd e dispensatore, inoltre, di un’intervista di nove minuti a Kitano, di un video di undici con il critico Enrico Ghezzi che ne parla e dei trailer di Violent cop e Boiling point; oltre ad un booklet a cura di Bruno Di Marino incluso nella confezione.
Peccato soltanto per l’assenza della lingua originale nel disco di Sonatine.
Francesco Lomuscio