La “Trinità” di Andrej Rubljov

Da Paolo Statuti

Andrej Rubljov: La “Trinità”

     Per il duecentesimo post del mio blog ho scelto la pittura, e precisamente l’“icona delle icone” – la “Trinità” o l’”Ospitalità di Abramo”, dipinta nel 1422 (?) da Andrej Rubljov. Essa raffigura la scena della visita fatta dalla Trinità ad Abramo per promettere a lui e alla moglie Sara una discendenza. Nel mese di agosto del 1969 frequentai a Mosca un corso internazionale di perfezionamento per insegnanti della lingua russa. In tale occasione conobbi Georgij Sergeevič Dunaev (1936-1978), scrittore, saggista e critico d’arte. Il suo nome è legato soprattutto ai suoi studi su Botticelli. Oltre all’arte rinascimentale italiana, egli si occupò di iconografia, filosofia, musica e della sintesi delle arti. Dopo il nostro incontro mi inviò una copia della rivista Dekorativnoe Iskusstvo SSSR.1972.3(172) (L’arte decorativa russa), dove alle pagg. 29-34 era stato pubblicato il suo saggio Il linguaggio simbolico della “Trinità” di Rubljov. Eccolo nella mia traduzione dalla lingua russa.

Com’è noto, la “Trinità” si trova nella Galleria Tret’jakov, ma il suo legame con il mondo delle forme dell’iconostasi sfugge al visitatore. Gli studiosi sottolineano in pari tempo, che l’iconostasi trinitaria è la prima iconostasi completa che si conosca (ove le icone rituali erano disposte come un fregio continuo e “non venivano alternate con le pitture dei pilastri orientali”), e che Rubljov ha introdotto qui “qualcosa di nuovo nella decorazione della parte orientale del tempio” (M. Il’in). Si possono spiegare il movimento più diritto della figura dell’angelo di sinistra, lo spostamento a sinistra dell’asse centrale e l’asimmetria che ne deriva, con l’originaria posizione della “Trinità” nell’iconostasi; e non è una contraddizione il fatto che l’asimmetria e  il sistema dei movimenti possano essere spiegati con la struttura interna dell’icona stessa, poiché esiste tra essi una reciprocità. L’iconostasi presenta una triplice struttura lungo la linea orizzontale – mensa del sacrificio, altare, diaconio. La posizione centrale della “seconda trinità” dell’iconostasi – il “Salvatore Onnipotente”, la Madre di Dio e il Battista, con le forme ovali e romboidali del “Salvatore” e le altre figure che si chinano verso di lui – dimostra anche che Rubljov seppe indovinare la melodia della “Trinità” nella generale risonanza dell’iconostasi, tanto più che in essa le forme tondeggianti appaiono come elementi predominanti della composizione. Le composizioni circolari prevalgono nelle icone delle festività “Trasfigurazione”, “Discesa dello Spirito Santo”, “Deposizione” ed altre ancora, ma nelle rimanenti troviamo forme arrotondate, cosicché la “Trinità” di Rubljov risulta straordinariamente “iconostatica”, a differenza ad esempio, di quella del pittore Feofan. Ma il “cerchio” stesso può essere inteso solo in relazione alle forme del calice e della croce, che arricchiscono la sua semantica. Se consideriamo le “composizioni arrotondate”, vedremo che la loro costruzione procede secondo forme ellittiche – ad esempio “L’ingresso a Gerusalemme”, “Il lavaggio dei piedi” ed altre ancora. In tal modo, il cerchio nell’iconostasi è la forma mobile le cui posizioni terminali sono il cerchio puro e la retta. Non s’incontra nell’iconostasi la brutta infinitezza del movimento rettilineo, mentre il cerchio come forma di ragionato movimento in sé e di moderazione s’incontra spesso. Il motivo del tondeggiare delle forme in Rubljov è chiaro ad esempio nella “Presentazione” (cattedrale della Trinità). Il motivo della processione solenne che ricorda l’offerta dei doni alla divinità nei fregi del Partenone e “l’isocefalia” nella “Presentazione” della cattedrale dell’Annunciazione, è sostituito da un componimento ellittico, dove vediamo non il sacrificio al dio, ma la gioia della liberazione, della risoluzione, i reciproci doni di amore della divinità e dell’uomo, cioè lo stesso principio dell’amore sacrificale e della libertà che troviamo anche nella “Trinità”. Così, nella “Apparizione dell’angelo alle donne” nella cattedrale della Trinità, è evidente la proficua influenza della “Trinità”. E non tanto nel campo della maestria formale – l’autore di questa icona è lontano dalla raffinatezza dell’esecuzione e dal “classicismo” delle figure delle pie donne nella cattedrale della Dormizione, – quanto nella costruzione ternaria, nella nobiltà delle proporzioni e, soprattutto, ciò che non era nemmeno in Rubljov al tempo dell’affresco nella cattedrale della Dormizione – nel linguaggio degli “inclinamenti”, svelato nella “Trinità”. Un unico movimento sembra penetrare le figure delle donne, allungando gradualmente, animando e assottigliando i loro corpi. Le figure, oltre un generale moto ellittico, hanno anche dal di dentro un moto ovaleggiante (la linea dei soprabiti) che le unifica in un tutto indissolubile. E’ importante notare che i contorni delle figure non si sovrappongono l’uno all’altro, creando intersecazioni spaziali, ma si completano a vicenda o, più esattamente, le figure sono come trasparenti e un contorno delinea due figure; grazie a ciò si creano legami ritmici che fondono i momenti non simultanei del moto. Cioè viene raggiunto ciò che a suo tempo sognavano di fare i futuristi,  scomponendo il moto in momenti distinti e sforzandosi di sintetizzarli, per trovare un’unica soluzione al problema “tempo-spazio”. Ma questa soluzione è data dal pittore di icone senza l’apporto di una deformazione, mediante una precisa ritmica costruzione. La composizione ellittica sembra rispondere al principio dell’accrescimento e dello sviluppo della maturità spirituale delle immagini, essa si nota anche nell’icona “Il lavaggio dei piedi” (cattedrale della Trinità), il che conferisce al rito quello stesso senso di formazione dell’amore reciproco della divinità e dell’uomo, che è un leitmotiv di Rubljov. Nella “Ultima Cena” (cattedrale della Trinità) è importante notare che il calice richiama il calice della “Trinità”, che esso è l’unico oggetto sulla tavola, e non ce ne sono altri, come avviene, ad esempio, nella stupenda icona di Kiev del XV secolo. In base al principio della “raffigurazione apparente” (1) – questo calice riceve una caratteristica simbolica, e questa composizione viene messa da noi automaticamente in rapporto con la “Trinità” che si trova sotto di essa e dove il tema calice-cerchio riceve pieno sviluppo e, in tal modo, ritroviamo il motivo della “Ultima Cena” nella “Trinità”, come parte di un tutto. Tralasciamo qui gli altri elementi della raffigurazione che scaturiscono da questa correlatività. Nella “Ascensione” la forma del cerchio è data “realmente” e quella del calice – “apparentemente”. Forse notiamo questo calice, formato dai contorni esterni degli angeli (2) e di un bianco accecante su fondo “scuro” (a differenza dello “scuro” sul chiaro della “Cena” e della “Trinità”) solo perché Rubljov ha usato il procedimento della formazione simbolica dell’intervallo, ripetendo il calice nei contorni interni degli angeli della Trinità, cioè egli ha saputo leggere anche ciò che si celava nella composizione della “Ascensione”. La composizione generale della “Ascensione” è analoga a quella della “Trasfigurazione”, e ne risulta anche un arricchimento della semantica (3). Noteremo che è difficile immaginare queste composizioni dell’iconostasi prescindendo dal confronto con la “Trinità”; essa, infatti, è come se le completasse. Per questo nella iconostasi russa è “invisibilmente” presente questa formula definitiva data da Rubljov (anche se in forza di una raffigurazione apparente). Ma perfino le composizioni “della croce” sono legate a quel significato che Rubljov attribuì al cerchio nella sua Trinità – giacché non v’è croce senza cerchio. E’ vero, i loro rapporti reciproci sono dissimili. Così, nella “Deposizione”, attraverso un sistema di piani ritmici il cerchio passa gradualmente nella croce, ed ogni piano, grazie alla intensità del colore e del correlativo movimento circolare, ha una sua propria semantica; occorre inoltre rilevare che l’immobilità nell’icona attesta non una insensibilità ma, al contrario, una grande tensione, perché la vita si comprende non dal di fuori, ma dal di dentro. Per questo la più immobile figura della Madre nella “Deposizione” sembra rimare con la figura dell’angelo di sinistra nella “Trinità”, in virtù della loro tanto maggiore tensione interna. Nella “Deposizione” il cerchio e la croce hanno pari dimensioni, ma la triplice superiore armonia trionfa, la croce si eleva come un grandioso monumento, come un segno di vittoria. Essa sembra riversare la benedizione sui presenti. Nella “Sepoltura” la croce interrompe il cerchio, ponendosi al centro della composizione, – le cadenze circolari, come singhiozzi, ondeggiano presso questo monumento dell’afflizione. Scorgiamo la croce come sostegno e il cerchio come motivo di gioiosa vittoria nella “Discesa agli Inferi”, che è anche una composizione in tre parti con il raggruppamento rubljoviano delle figure. La “Trinità” è organicamente legata all’iconostasi, poiché il cerchio, la croce come albero della vita, il calice come simbolo di amarezza e di risurrezione li ritroveremo nelle composizioni delle festività. Ma Rubljov, introducendo la “Trinità” nell’iconostasi, dette a queste forme un senso universale. Ciò riguarda soprattutto il tema del cerchio che emana nella Trinità tutte le sfumature dei valori iconostatici. Nella cattedrale della Trinità, nell’iconostasi sopra la “Trinità” si trova l’arcangelo Gabriele, la cui esecuzione si attribuisce al tardo Rubljov, mentre a sinistra della porta reale vediamo l’arcangelo Michele. In tal modo, il centro dell’iconostasi è come circondato dagli angeli e trasformato in simbolo di poesia liturgica, che invita l’uomo, in nome della Trinità, ad essere “come un cherubino”. Per l’osservatore moderno la pluralità di significati dell’immagine nell’icona, la comprensione dei livelli del suo simbolismo poetico presentano difficoltà note. La coscienza ontologica del pittore di icone ha sintetizzato l’etica e l’estetica, il sapere e l’universo, l’arte e il pensiero, il nome e l’essenza, unendo così un’abile differenziazione dei concetti con la sottigliezza filosofica del suo tempo. Ciò riguarda soprattutto Rubljov, il quale, secondo le parole di un contemporaneo “superava di gran lunga tutti gli altri per la sua grande saggezza”. Questo simbolismo plastico e poetico penetra tutti i livelli della realtà pittorica, e non possiamo ignorare la particolare complessità che ne deriva e la ricchezza della raffigurazione. Nella “Trinità” è possibile rinvenire moltissimi livelli di realtà artistica nella costruzione dell’immagine, come si vede nell’esempio del calice, benché questo principio si possa addurre per qualsiasi altra immagine. Al livello letterale e a quello storico-biblico seguivano quello analogico e quello cosmico-morale, poiché il calice non è semplicemente il calice per la refezione, ma è anche il prototipo del calice eucaristico e, di conseguenza, anche il segno di un miracolo-simbolo, esso è dunque il calice dell’amore e della morte (questo quinto livello si può chiamare “poetico”), e conduce a nobili azioni e alla perfezione (livello cosmico-morale), è “l’itinerario dell’anima a Dio”, che troviamo spesso anche nei maestri del Rinascimento. In Rubljov l’immagine del calice non si esaurisce in questi sei significati. La linea del calice è introdotta all’interno della triplice unità e serve da contorno interno degli angeli (cioè la plasticità attesta non solo l’inconoscibile e la perfezione dell’essenza della triplice unità –  “il cerchio”, ma anche il conoscibile della Trinità, attraverso l’amore sacrificale e l’incarnazione – cosiddetto “tema catafatico” – settimo significato). Inoltre incontriamo l’immagine capovolta del calice nella figura dell’angelo di centro; le pieghe del suo himation confluiscono verso il calice ed è come se si unissero ad esso in un’unica immagine. L’angelo sembra entrare nel calice o affiorarne. Qual è la semantica di questo procedimento? Forse vuol dire che “il re della gloria viene per sacrificarsi e farsi nutrimento dei credenti” (V.N. Lazarev dimostra che l’angelo di centro è Cristo, oppure è un uomo-angelo trasfigurato, e dopo aver ricevuto il sacramento? O l’una e l’altra cosa?). In ogni caso abbiamo qui alcuni altri significati dell’immagine. Ma non è tutto. Nel “testo” della icona il calice si ripete quattro volte: sull’altare, nel contorno interno degli angeli, capovolto nell’angelo di centro e nella parte inferiore dell’icona. Questa quadruplice ripetizione inserisce l’immagine del calice in un sistema di piani spaziali, di rapporti di luce e di colore, cioè in un sistema generale di plastica pluralità di immagini. La sua significazione si arricchisce di una simbologia lineare, coloristica e luminosa, poiché tutti i contorni dei diversi piani sono dati in modo diverso, ed essa sarà ora reale, ora apparente, ora semiapparente. Se ora rivolgiamo la nostra attenzione al sistema plastico “fuori testo”, vale a dire all’iconostasi, noteremo che un calice quasi della stessa forma e dello stesso ambiente (su bianco) si trova sopra la Trinità in un’altra composizione, vicina ad essa per il significato, cioè nell’”Ultima Cena”. Senza dubbio si verifica qui un’inversione, opera un intervallo diverso da quello della “Trinità”, e per il principio della raffigurazione apparente, tutti e quattro gli intervalli e, di conseguenza lo stesso calice, ricevono una diversa durata figurativa, una diversa “immagine del tempo”. Nell’”Ultima Cena” il tema del cerchio si ripete tre volte, e questa ritmica ripetizione: calice – tavolo – cerchio degli apostoli – agisce come i rintocchi di una campana e costringe a volgersi continuamente all’immagine del calice che risuona qui in modo drammatico. Del tutto opposta è l’immagine del calice d’un bianco accecante che appare tra gli apostoli nella “Ascensione”. Essa è raffigurata da due angeli , come nella “Trinità”, ma non secondo un contorno interno, bensì esterno. Il “calice degli angeli” unifica qui due mondi – quello terreno, rappresentato dagli apostoli, e quello celeste. Se il calice dell’”Ultima Cena” separa il traditore dal Dio-amico, nella “Ascensione” esso riunisce nuovamente gli apostoli. E’ stato osservato che una simile configurazione dell’icona è affine alla costruzione del tempio, ove la navata semioscura è chiusa dall’altare risplendente (4). In tal modo il motivo del calice si trasmette a tutto il tempio e i successivi risultano spazialmente inclusi all’interno di questa immagine. Emerge qui l’intensa vivacità spaziale dell’immagine anche in seguito alla raffigurazione apparente. L’icona della “Ascensione” è vicina, per lo schema compositivo, a quella della “Trasfigurazione”, dove l’intensa luce getta a terra gli apostoli, per cui chi osserva percepisce la luce del calice nella “Ascensione” come unificante e rasserenante. Egli stesso si paragona agli apostoli che videro la luce della Grazia, che assaporarono il calice dell’”Ultima Cena”, unificati infine, e illuminati dalla luce del calice della “Ascensione”. In virtù della interdipendenza tra il calice e il cerchio sia nella “Trinità, sia nell’”Ultima Cena, la raffigurazione del calice è legata ai significati infiniti del cerchio che penetrano tutta l’iconostasi. Se osserviamo il divenire della raffigurazione nell’icona stessa, nell’iconostasi, se ci poniamo al centro del tempio, ci inseriamo nel sistema “spaziale” della percezione e torniamo quindi alla “Trinità”, il suo calice, arricchitosi di tutte le varianti plastiche e poetiche, apparirà dinanzi a noi come il segno di un tutto unico. “L’angelicità” è il principale motivo di Rubljov, la sua intonazione. Se ne può cogliere il senso solo in rapporto alla formazione dell’immagine dell’angelo, le cui radici in Rubljov provengono dall’antichità, come più di una volta è stato osservato. Il legame degli angeli di Rubljov con il “linguaggio divino ellenico” è stato rilevato da molti studiosi. Inizialmente ci furono tentativi per dimostrare la parentela formale degli angeli di Rubljov con la scultura ellenica dell’epoca del suo pieno rigoglio, attraverso l’analisi della pulsazione interna della linea. In seguito venne osservata l’analogia della situazione storica nella Grecia successiva alle guerre persiane, e in Russia dopo la vittoria sui tartari. Adesso questa relazione viene analizzata sotto differenti aspetti. E’ stata giustamente messa in evidenza la somiglianza delle figure dei vasi con fondo bianco  del tempo di Sofocle e delle stele sepolcrali con le figure di Rubljov. Ma non meno rilevanti sono anche le differenze: le Niki elleniche sono dee, gli angeli bizantini sono virili, quelli di Rubljov non sono né femminei né virili, essi sono al di sopra del sesso. Per i Greci gli dei erano le forze fondamentali del cosmo, e per questo il più delle volte si mostravano in lotta con i propri antenati, con titani e giganti, o assistevano ai combattimenti mortali degli eroi. Queste “machie” sono estranee agli angeli, interamente dediti alla contemplazione. Gli angeli delle prime icone di Rubljov (la “Natività”, il “Battesimo”, entrambe nella cattedrale della “Annunciazione”) sono raggruppati, ma la variazione del motivo iconografico, ammessa da Rubljov nella “Natività”, li obbliga ad inchinarsi al Bambino e li accomuna agli altri personaggi dell’icona. Gli angeli della cattedrale della “Dormizione” di Vladimir sono affini “all’angelo di Chitrovo”. Essi sono ancora pieni dell’impeto e della dinamica del Rinascimento dei Paleologhi, di cui parla anche la composizione del “trono prestabilito”. Gli angeli appaiono di tre quarti, come nella “Trinità”, ma ciò è ancora soltanto un accenno al tipo di sviluppo dell’angelo rubljoviano. E’ stato notato che gli angeli della cattedrale di Vladimir somigliano a “grandi buoni bambini”. Noi non condividiamo il metodo psicologico nell’analisi delle forme dell’icona. Perciò è importante per noi rilevare l’incremento dei contorni parabolici nelle figure, il trattamento a spirale del moto, il generale allungamento delle proporzioni e la comparsa della tipica romboidalità, soprattutto nell’angelo che suona la tromba. E qui incontriamo per la prima volta la caratteristica rotondità delle spalle e lo scorrevole passaggio alla ondulazione continua della manica, come nell’angelo centrale della “Trinità”, ma si conserva la rotondità delle teste e “l’astrattezza” della trattazione. E’ interessante notare in Rubljov l’assenza di quella accentuata spiritualità e di quel particolare “aristocratismo” delle composizioni piane e lineari, tipiche negli angeli della scuola di Vladimir-Suzdal’. La spiritualità degli angeli rubljoviani proviene dall’immagine della “Madonna di Vladimir” – unica nel suo genere, che egli attentamente studiava e la cui bellezza profondamente umana e tragica si manifesta negli angeli della “Trinità” e negli altri angeli in generale. Gli angeli di Rubljov rivelano la personalità dell’amore creativo, il suo fondamento nell’unità della triplicità. Questo mistero della personalità non è rivelato immediatamente dagli angeli di Rubljov. Gli angeli si stupiscono di molte cose, molto per essi rimane incomprensibile. Non senza ragione i contemporanei di Rubljov – Palama, Kallist Katathigiot e Pico della Mirandola consideravano la natura umana superiore a quella angelica, anche per la verità in modo diverso, poiché l’italiano scorgeva la superiorità della natura umana nella libertà del volere e della autonomia, mentre i greci la ravvisavano nella forza della ragione. “E se chi non sa è schiavo, chi sa non lo è affatto, ma è libero…, e così la ragione deve tendere a un unico modello, affinché in seguito alla sua scoperta e contemplazione, risplenda anche l’amore per esso…” Negli angeli della “Trinità” Rubljov abbandona del tutto l’ovalità del volto, avvicinandosi alle linee più acute del volto della “Madonna di Vladimir”; la rotondità del contorno generale lascerà il posto alla parabola, i capelli saranno visibili su entrambi i lati fino alle spalle, e non si interromperanno dalla parte sinistra all’altezza degli occhi, come negli angeli di Vladimir, e inoltre i loro contorni si avvicineranno ai tratti dell’abito della “Madonna di Vladimir”. Il naso si allungherà, la fronte e il mento si ridurranno. Comparirà un esame approfondito delle linee del naso e delle sopracciglia, tra le quali sarà visibile una piccola ruga triangolare, come nella “Madonna di Vladimir”, un più generalizzato e marcato trattamento dei riccioli che accentuerà la delicatezza dei tratti del volto, una forma più pittorica dei vuoti. Tutto questo dice che l’ideale della bellezza, espresso nella “Madonna di Vladimir” e negli angeli di Rubljov, ha un unico fondamento spirituale. L’ideale armonia delle forme è raggiunta attraverso il superamento dell’antinomia del mondo. In arte ciò si manifesta come problema “segno-raffigurazione”. Per la trasmissione delle idee più sottili occorre anche un maggior grado di astrazione. I teorici bizantini effettuarono studi sulle “somiglianze dissimili” alla diataksis, che bene esprimono i principi del trattamento creativo dell’arte. Nell’arte greca c’è un alto grado di generalità, c’è il senso della bellezza assoluta che il greco coglieva mediante la contemplazione del mondo dei fenomeni, ma in essa prevalse presto il rapporto entecheletico di forma e materia – i principi diatattici della costruzione sono assenti. Ciò è chiaramente visibile almeno nell’esempio delle pieghe. Alla scorrevolezza dei contorni delle pieghe nelle stele greche si contrappone l’antinomia delle pieghe rettilinee, dei vuoti sfaccettati e degli angoli acuti, nonché la sinusoidalità e l’iperbolismo dei contorni nella pittura delle icone. Le pieghe degli abiti che scendono in verticale, con gli acuti lembi pendenti sui quali, sostanzialmente, poggia anche la figura, conferiscono a quest’ultima la volatilità e la “fragilità” in questo mondo, e il lieve tocco dei piedi – l’imponderabilità, quasi ci trovassimo in un mondo privo della legge di gravità. La pettinatura alla “Nefertiti” e il generale allungamento delle figure degli angeli nella “Trinità” (14:1 invece del consueto 8:1, secondo J. Olsuf’ev), la maestosità dei loro gesti e la “pace eterna” in cui essi dimorano, il rilievo delle loro pose, la generale tensione delle linee del movimento delle pieghe e dei contorni della figura, che sembra nascere, anziché dalle pieghe dell’abito, dalle onde di un oceano primordiale, con il suo ritmo, come presso gli Elleni, apparenta l’icona all’arte egizia tanto quanto a quella greca. Il  virtuosismo di esecuzione delle pieghe nella “Trinità” è sorprendente, e la “precisione geometrica” non stona ma, al contrario, dà a queste raffinate diversità un carattere di “autenticità superiore”. Tenteremo in modo ancora più evidente di spiegare il senso delle trasformazioni diatattiche e di interpretare il “segno” in Rubljov. I due angeli alle estremità formano presso l’asse centrale come i due bracci di un’iperbole. Questo iperbolismo dei contorni s’incontra anche nella forma delle maniche e nelle pieghe dell’abito – è come il leitmotiv delle linee rubljoviane. Alcune linee nella “Trinità” sembrano attraversare il piano da parte a parte, altre lo intersecano dall’alto o dal basso. La predilezione della parabola e soprattutto dell’iperbole per delineare i contorni degli angeli può essere spiegata con la cosmicità di questa figura. E’ come se “le estremità” dell’iperbole si ripiegassero in qualche punto infinitamente lontano  dello spazio, e ritornassero quindi verso di noi “alla rovescia”, cioè quello che era di sopra apparirà di sotto e viceversa. Di qui l’universo si immagina finito, come una figura che ricorda la sfera, ma schiacciata ai “poli” (5). Nella “Trinità” le forme iperboliche, paraboliche e spiraleggianti predominano nella stessa struttura dell’opera, esprimendo l’idea di un macrocosmo, integro nel suo isolamento e isolato nella sua unità. Di qui anche l’insolita monumentalità dell’opera, ma anche la compiutezza della composizione. La “pianicità” e la linearità di questa icona non sono affatto così semplici come solitamente si pensa. Il piano per Rubljov non è un valore autonomo, ma solo il punto di partenza. Egli immagina lo spazio che raffigura non solo a tre dimensioni, ma anche a “quattro dimensioni” – come unità spaziale-temporale, dove il tempo non è separato dallo spazio e ne definisce la struttura. E nondimeno, nelle sue costruzioni il pittore di icone parte dalla superficie piana, tiene conto delle sue condizioni. Ma il linguaggio della sua raffigurazione non è piatto, come ad esempio nel pittore egizio. Il pittore di icone, pensando in modo “quadrimensionale” costruisce uno “spazio sferico” sui generis, servendosi di una superficie piana intesa a parte, che possiede “elevatezza” e intensità. Già da alcuni secoli la tradizione dello spazio prospettico distrugge il piano e costruisce uno spazio fittizio e illusorio. Il pittore di icone, al contrario, inserisce il piano in un sistema generale di raffigurazione che riflette il tempo-spazio realmente esistente. E’ stato rilevato che la prospettiva “attira” l’osservatore nella profondità del quadro, mentre la “prospettiva inversa” respinge chi osserva, non lo lascia entrare nei confini di quel mondo ove si trova la “Trinità”, in “altri mondi” ove un’altra “misura” regola il tempo e lo spazio. Egli deve, come Dante, superare il “mezzo del cammin”, cambiare completamente il consueto orientamento, per penetrare nei segreti dell’icona. Il mondo delle cose diventa trasparente, poiché tutte le sue facce sono visibili simultaneamente, la massa dei corpi si fa apparente e la figura in tutta la sua forza diventa “volatile” come gli angeli di Rubljov, e “imponderabile”. Anche il mondo oggettivo muta, la terra e i ripiani dei monti si raffigurano di solito come tagliati in due dal piano; tutto acquista una netta “sfaccettatura” e fragilità, grazie al trattamento con i “quanti” d’oro della luce. Ma lo spazio s’infrange in presenza di velocità maggiori della velocità della luce, e il corpo nei confini estremi del mondo “si capovolge”, come accadde con Dante e Virgilio, assumendo caratteristiche apparenti: – la lunghezza di ogni corpo diventa pari a zero, la massa diventa infinita, e il tempo – eterno. In pratica non ci sono velocità maggiori della velocità della luce, ma il mondo dell’icona è mentale e non materiale. Uno studioso di Dante diceva che la Divina Commedia, spezzando il tempo, appare inaspettatamente non indietro, ma in anticipo rispetto alla scienza a noi contemporanea. Queste stesse parole possono e debbono dirsi anche per la creazione di Rubljov.   __________________________

  1. Con “raffigurazione apparente” (P. Florenskij, “Apparenza e geometria”, 1922) o minus-sistema (Lotman, “Lezioni di poetica strutturale”) si è convenuto di indicare la percezione di una concreta raffigurazione, come se fosse sovrapposta ad un’altra, legata ad essa nello spazio e nel tempo, nonché internamente inseparabile dalla stessa. Esse agiscono come da contrappunto e creano risonanze polifoniche. Così la “semplicità” di Rubljov e il suo rifiuto delle complesse quinte architettoniche e paesaggistiche, l’assenza di una narrazione letteraria sviluppata, il rifiuto dei movimenti forti che creano un’atmosfera tesa ed emozionale, e anche di aperti effetti di luce, cioè di tutto ciò che era la base della raffigurazione del suo tempo, aggiungono a questa “semplicità”, realmente percepita solo sullo sfondo di questo saturo “linguaggio paleologico”, una nuova supplementare raffigurazione – una “raffigurazione apparente”, come noi chiameremo questo sistema di rapporti artistici.
  2. M. Alpatov. Studi sull’arte anticorussa. Mosca,1967.
  3. Ibid.
  4. Ibid.
  5. N. Tarabukin. La filosofia dell’icona (Archivio della Biblioteca “Lenin”).

Alcune icone di Andrej Rubljov

L’”Ascensione”

Il “Battesimo”

La “Discesa agli Inferi”

La “Natività”

L’”Ingresso a Gerusalemme”

la “Lavanda dei piedi”

La “Presentazione”

La “Sepoltura”

L’”Ultima Cena”

La “Trasfigurazione”

La “Madonna di Vladimir” (copia a olio eseguita da Paolo Statuti)



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