Un estratto da uno dei tanti “racconti di viaggio” su Istanbul che circolano sul web:
“Prima di tutto c’è Istanbul, dove Europa e Asia si incontrano sul Bosforo regalandoci tramonti mozzafiato. La città idealmente divisa dal ponte di Galata in cui tradizione e modernità si intrecciano profondamente. Da una parte si può godere della città vecchia, meta preferita dei turisti, in cui però basta allontanarsi un poco dai siti più battuti per ritrovarsi nella Istanbul più autentica tra case che stanno in piedi per strane leggi della fisica, bambini che giocano per strada, piccole botteghe e laboratori dall’attività frenetica e donne avvolte nei loro veli più o meno coprenti. Dall’altra parte c’è la città nuova, quella che la consacra città cosmopolita in cui i veli per lo più spariscono e lasciano spazio a locali alla moda, negozi di grandi marchi e un fitto brulicare di vite e persone.“
Niente, è una fissazione: ma quante volte bisognerà ripeterlo che i quartieri con le case fatiscenti, i bambini allo stato brado e tutto il resto sono molto poco rappresentative di Istanbul? Quei quartieri – immagino, Fener e Balat – erano infatti abitati da varie minoranze storiche – greco-ortodossi, ebrei e armeni – fino agli anni ’50: vicende belliche e politiche ne hanno provocato lo svuotamento e oggi sono abitate da immigrati anatolici. E perché mai dovrebbero essere le zone povere e degradate a essere “autentiche” e non già i quartieri da sempre della media borghesia e cosmopoliti, come Kadıköy e Moda?
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