Turchia e crisi siriana
In merito alla crisi siriana, la Turchia ha dapprima cercato di portare avanti una politica estera di prudente mediazione e neutralità, testimoniate dalle numerose visite a Damasco e dai tentativi di negoziato del Ministro degli Esteri turco Davutoğlu nel corso dell’anno (si veda la costituzione di un Comitato turco-siriano). Gli esiti non soddisfacenti, in contemporanea con le elezioni parlamentari turche, hanno fatto sì che la diplomazia di Ankara adottasse una linea di dura opposizione al regime di Assad. Il linguaggio del Primo Ministro Erdoğan ha mutato registro, passando da una retorica amichevole a manifestazioni di condanna: si inserisce in questo quadro la volontà turca di imporre sanzioni. Lo stesso Davutoğlu ha espresso a chiare lettere che qualunque crisi interna in Siria pone rischi per la stessa Turchia, che non può dunque rimanere inerte. Insomma, si tratta di una rivisitazione della politica degli “zero problemi con i vicini”, che aveva conferito lustro allo stesso Ministro. A livello politico, inoltre, la linea dura della diplomazia turca sulla crisi siriana si è tradotta nel sostegno al Consiglio Nazionale Siriano (SNC), che il 2 ottobre scorso ha scelto Istanbul per ufficializzare il proprio ruolo di rappresentante dell’opposizione siriana. Si è giunti ad un incontro ufficiale con una delegazione del SNC il 17 ottobre ad Ankara, aprendo così la strada all’istituzione di un ufficio del Consiglio ad Istanbul. La composizione dell’opposizione siriana merita particolare attenzione: il menzionato Consiglio Nazionale Siriano, il cui leader, rinnovato per un ulteriore mese, è Burhan Ghalioun, raccoglie all’estero (in Turchia appunto) affiliati dei Fratelli Musulmani ed altre formazioni islamiste, nonché di alcuni gruppi laici. Si è tuttavia formato, rimanendo sul territorio siriano, un Comitato di Coordinamento Nazionale (CCN), con a capo Haytham Mannaa, composto invece da gruppi nazionalisti, da dissidenti dei partiti comunisti clandestini e da fazioni di curdi che non accettano il dialogo con la Turchia. Queste due anime si trovano in forte disaccordo su tre punti chiave: l’opportunità di un intervento militare occidentale (che vede contrario il CCN); il dialogo con il regime di Assad (lo stesso CCN sembra possibilista) e il ruolo dell’Esercito Libero Siriano, composto a quel che si dice da disertori dell’esercito regolare, il cui ruolo pone qualche dubbio ed è avversato dal CCN. La contrapposizione si riscontra anche in termini di supporto regionale: se il CNS gode dell’appoggio ormai pieno della Turchia, il CCN ha avviato contatti con l’Iran. In realtà lo scorso dicembre, al Cairo, le due fazioni si sono incontrate e, spinte dalla Lega Araba e dall’Unione Europea, avevano raggiunto un’intesa che esprimeva contrarietà ad ogni influenza esterna e sanciva l’unità e la compattezza del fronte di opposizione al regime siriano. Ma il recente annuncio di Ghalioun di aver firmato un accordo con l’Esercito Libero Siriano ha fatto saltare l’intesa, tanto più considerando le accuse che il CCN muove all’Esercito, sospettato di reclutare miliziani stranieri (non ultimi sarebbero entrati 600 combattenti libici) nell’ottica di un possibile intervento esterno. Per ora, l’idea di un “cuscinetto”, che serva come base e protezione per le operazioni degli infiltrati, si muove di pari passo con la questione dei profughi siriani che si ammassano al confine turco. Qualora l’esodo fosse incontenibile, Ankara ufficialmente ha affermato di essere pronta a qualsiasi evenienza, anche alla creazione di una buffer-zone, che potrebbe al contempo costituire un ideale avamposto per le operazioni militari: realisticamente, tutto dipenderà da quanto il braccio di ferro opposizione-governo andrà avanti e dalle ondate di profughi che si muoveranno di conseguenza ponendo un serio problema di gestione. Non può ripetersi quanto avvenuto con i profughi palestinesi.
Il cambio di posizione ed il passaggio della Turchia alla linea dura sulla questione siriana non è stato affatto gradito né dalla Siria, né dal suo storico alleato, l’Iran. Un possibile crollo del regime siriano e, dunque, la fine di una trentennale amicizia, causerebbe all’Iran numerosi problemi: il congelamento delle attività al confine israelo-libanese, la perdita di ogni collegamento diretto col Mar Mediterraneo (si veda l’accordo siglato per la costruzione di un porto militare nei pressi di Latakia, che rappresenterebbe la prima base navale di stanza sul Mare Nostrum), l’aumento dell’isolamento politico della Repubblica Islamica – stretta tra le sanzioni internazionali e le recenti accuse americane di “terrorismo internazionale”. Un ulteriore elemento di forte frizione nei rapporti con l’Iran deriva dall’accettazione turca di ospitare una nuova piattaforma radar della Nato, parte di un sistema di early warning antimissilistica. La piattaforma è stata installata a Kürecik, nella provincia di Malatya, nel sud-est del paese, a circa 700 km dal confine iraniano e rappresenta uno scudo di difesa dei paesi Nato contro un eventuale attacco da missili balistici. Davutoğlu, già in fase di negoziato, prevedendo possibili reazioni ostili dall’Iran, aveva posto il veto a qualsiasi dichiarazione che affermasse il carattere anti-iraniano del radar. Ad ogni modo, questi sono elementi che hanno incrinato i rapporti turco-iraniani: sembrano lontani i tempi idilliaci della sigla dell’accordo sul nucleare iraniano, insieme al Brasile, nel 2010. Tanto più che il mutamento di posizione di Ankara sulla questione siriana è stato interpretato come un tradimento da parte di Damasco. L’ambivalenza della politica turca, tuttavia, permette di tenere in conto anche le recentissime dichiarazioni di Davutoğlu, il quale ha respinto la possibilità che la NATO utilizzi il territorio turco quale rampa di lancio di operazioni anti-iraniane. Come a dire che, data la flessibilità della situazione mediorientale, Ankara si tiene pronta di fronte a qualsiasi evenienza.
La questione siriana ha, inoltre, posto la necessità per la Turchia di interagire e confrontarsi con i Paesi del Golfo, riuniti nella struttura del Consiglio di Cooperazione del Golfo, ma con uno sguardo più attento al “blocco sunnita” di Arabia Saudita e Qatar. La Turchia ha compreso che la posizione leader dell’Arabia Saudita nel mondo arabo la rende necessariamente partner strategico per la gestione dell’assetto regionale in definizione. Si pensi al fatto che poche ore dopo che Riyadh aveva ritirato l’ambasciatore da Damasco, Kuwait e Bahrein l’avevano seguita. E l’influenza saudita si avverte con forza anche in relazione ai due Stati cui recentemente è stata offerta la partecipazione al Consiglio: Marocco e Giordania, entrambi pronti nel manifestare grave preoccupazione e condanna per la repressione operata dal regime di Assad. Recente, poi, è la decisione di tutte le sei monarchie arabe del Golfo di ritirare i loro osservatori dalla missione della Lega Araba in Siria, seguendo l’esempio dell’Arabia Saudita. Merita rilievo, inoltre, la visita dello scorso marzo del Ministro degli Esteri saudita Al Faisal ad Ankara, durante la quale, apprezzando gli sforzi turchi, egli ha auspicato che la Turchia giochi un ruolo di prim’ordine nel contenere le tensioni nel mondo arabo. Quanto al rapporto con il Qatar, l’ottica si volge ad una cooperazione competitiva: in effetti, entrambi i paesi si sono votati alla contrapposizione al regime siriano, ma questa coincidenza di intenti si scontra con la questione del ruolo strategico da svolgere. Il piccolo Qatar è sempre più potente, è annoverato tra le nazioni più ricche del mondo grazie a gas e petrolio, ha buoni rapporti sia con gli Stati Uniti (mantiene due basi militari) sia con gli islamisti, consapevole della portata dei mutamenti che stanno facendo seguito alla “Primavera Araba”. E per fare ciò ha sfruttato anche il soft power della rete Al Jazeera. Dunque, sembra inevitabile che si instauri una competizione per definire quale sia la reale nuova potenza mediorientale: la sfida per la Turchia non è da sottovalutare, l’attivismo di Doha è senza freni – dall’aver per prima, tra gli Stati arabi, riconosciuto il Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi all’appoggio all’intervento saudita in Bahreyn, per reprimere la rivolta della maggioranza sciita (questione che farebbe intravedere tendenze politiche settarie alla base delle manovre qatariote).
La cooperazione con i Paesi del Golfo è, ad ogni modo, significativa se si pensa inoltre al tema scottante che sta ponendo da qualche tempo l’Iran: la minaccia di bloccare lo stretto di Hormuz. Ossia bloccare il 40% del petrolio estratto nel Golfo Persico. A questo proposito risulta interessante l’annuncio che la Turchia si appresta ad ospitare un incontro con il GCC, non solo per rafforzare le opportunità di cooperazione in numerosi settori, ma soprattutto per discutere del dossier Iran e della sostenibilità delle minacce. I Paesi del GCC si sono detti pronti, a seguito delle ulteriori sanzioni varate nei confronti di Teheran, a soddisfare le richieste del mercato, aumentando la loro produzione di greggio.
Rapporti con gli altri paesi interessati dalla “Primavera Araba”
Dopo le vittorie elettorali degli islamisti in Egitto e Tunisia si è parlato molto di “modello turco” per il mondo musulmano. Ci si aspetta che per molti versi la Tunisia segua le orme della Turchia: dopo essere stata governata per decenni da un’élite laica ed occidentalizzata, essa si appresta a vivere l’esperienza di un governo guidato da un partito islamico che sembra voler riconoscere la laicità dello Stato. Sembrerebbe promettente, in questo caso, anche la minore propensione dell’esercito ad ingerirsi negli affari dello Stato: mentre in Tunisia l’esercito è rimasto chiuso nelle caserme, in Egitto ha assunto la guida del paese. Quanto a Ennahda, lo stesso Ghannouchi lo ha più volte paragonato al partito “Giustizia e Sviluppo” del Primo Ministro turco Erdogan, sottolineandone il carattere pragmatico e l’ambizione di ristabilire uno stato di diritto e di ricostruire l’economia del paese. Del resto, diversi analisti sostengono che sia inevitabile che Ennahda punti al modello turco, in particolare vista la dipendenza economica della Tunisia dal turismo, e visti i suoi stretti legami con l’Occidente. A conferma di ciò, si ricordi il recente incontro del Vice Primo Ministro turco, Besir Atalay, con Ghannouchi, durante il quale quest’ultimo ha ribadito la volontà di adottare il modello di sviluppo turco. Quanto ai rapporti con l’Egitto, ed in particolar modo con i Fratelli Musulmani ed il Partito Libertà e Giustizia (FJP), la politica “neo-ottomana” della Turchia sembra riscontrare un duplice atteggiamento: durante la visita che Erdogan ha effettuato al Cairo lo scorso settembre, centinaia di giovani egiziani, appartenenti alla Fratellanza, lo hanno accolto più che solennemente, tributandogli delle vere ovazioni, quasi avessero di fronte il nuovo califfo dei musulmani. Ora, la generazione più giovane è fortemente affascinata dal modello turco, che vorrebbe emulare in vista di un efficace contemperamento dei valori islamici con un sistema di governo dinamico e moderno. Tuttavia, la parte più rilevante della Fratellanza non ha accolto positivamente le dichiarazioni rilasciate da Erdogan relative all’invito che quest’ultimo compiva affinché si redigesse in Egitto una nuova costituzione fondata sui principi dello Stato laico, ovvero equidistante da tutte le religioni. Nel citare in sintesi l’esperienza turca e nel descrivere se stesso come un devoto e praticante musulmano che è allo stesso tempo il Primo Ministro di uno Stato laico, il Premier ha voluto porre l’accento sul fatto che non c’è alcun conflitto tra la devozione a Dio e la gestione di uno Stato laico. Dunque, il tema della laicità pone una seria sfida di adattamento e apertura in un Egitto che deve fare i conti con la transizione guidata da partiti islamici. In questo contesto va notato che se il dibattito circa la sostenibilità del modello turco mette in discussione alcuni assunti di fondo della Fratellanza, il dinamismo del Qatar potrebbe risultare ben accetto: questo è un paese “privo di ideologie” che ha ben compreso che gli islamisti rappresentano il futuro dell’area. È così che si giustificano gli ottimi rapporti che Doha mantiene con le differenti branche della Fratellanza, dalla Libia alla Siria, fino all’Egitto senza dimenticare i rapporti con lo stesso Ghannouchi. La strategia qatariota rimane dunque molto flessibile e, per questa ragione, si pone in competizione con la Turchia: in gioco vi è, come già ricordato nei punti precedenti, il controllo geostrategico del nuovo assetto regionale.
Relazioni con Israele
Dopo il rapporto delle Nazioni Unite (Commissione Palmer, la cui pubblicazione era già stata posticipata due volte) sull’assalto alla Freedom Flotilla la Turchia ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, di sospendere gli accordi militari e di ridimensionare la rappresentanza di Tel Aviv a un semplice secondo segretario d’ambasciata. Il messaggio politico di Ankara risulta forte: non ci sarà un nuovo ambasciatore israeliano, almeno per il momento. La decisione è motivata dal rifiuto del governo Netanyahu di presentare alla Turchia scuse ufficiali per l’uccisione dei nove attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara, la nave della flottiglia di attivisti filo-palestinesi assaltata il 31 maggio 2010 dalle forze speciali israeliane mentre cercava di forzare il blocco navale a Gaza. La situazione è precipitata, e ad oggi i margini di miglioramento sono deboli. Le continue divergenze e accuse reciproche, fin dai tempi dell’operazione “Piombo Fuso” nel 2008, hanno fatto sì che una delle relazioni cardine dell’assetto geopolitico mediorientale subisse un brusco arresto.
Relazioni con Cipro
Continuano le polemiche sull’irrisolta questione di Cipro, che implicitamente riguarda anche i rapporti Turchia-UE. Ritorna il tema dei giacimenti nel Mediterraneo orientale. Le tensioni si sono riaperte a seguito della concessione greco-cipriota di una licenza di esplorazione alla compagnia energetica statunitense Noble Energy per avviare perforazioni nelle acque di Cipro per l’estrazione di gas naturale nella cosiddetta “zona Afrodite”, al largo
Adesione all’Unione Europea
Il crescente ruolo regionale sul quale la Turchia sta focalizzando i propri sforzi pone qualche dubbio circa il persistere della volontà di portare a termine il lungo processo per l’adesione all’Unione Europea. Non solo, valutazioni rilevanti derivano anche dall’ottica con cui i turchi guardano attualmente al vicino europeo colpito da una crisi che ha esacerbato difficoltà e differenze all’interno del sistema.
La propensione turca a concentrarsi sugli avvenimenti dello scacchiere mediorientale pone un dilemma: se da un lato uno spostamento a sud-est della Turchia sembra destare qualche preoccupazione nella “vecchia” Europa, dall’altro potrebbe essere considerato come occasione adeguata per intraprendere un effettivo e concreto passo avanti verso il mondo islamico, di cui la Turchia si pone quale rappresentante. Tale atteggiamento non rappresenterebbe, dunque, una minaccia; anzi l’avvicinamento della Turchia ai paesi mediorientali potrebbe essere visto come un’opportunità: sarebbe un interlocutore perfetto per un’area “calda” ma strategicamente essenziale. D’altronde, non mancano problemi interni ad intralciare il cammino europeo della Turchia. Infatti, tutti e tre i partiti all’opposizione (Chp, Bdp e Mhp) durante la campagna elettorale avevano fortemente criticato la gestione del Paese da parte del Primo Ministro, anche per le politiche realizzate in vista dell’adeguamento agli acquis europei. La partita di Erdoğan è aperta: deve fronteggiare le resistenze interne della triade laico-curda-nazionalista nonché gli attriti con la Francia, ancor più manifesti all’indomani della querelle sul genocidio armeno. Tutto questo senza dimenticare la diatriba circa la presidenza dell’UE affidata a Nicosia nel 2012. Dal lato di Ankara, tuttavia, bisogna anche considerare che l’attrazione finora giocata dall’Unione Europea sta perdendo progressivamente peso; anzi sembra maturare una posizione alternativa fondata sull’idea che la Turchia, un tempo ritenuta “malato d’Europa”, sia guarita completamente: data, ad esempio, una crescita economica inferiore solo alla Cina. Così, potrebbe essere Ankara a correre in soccorso del nuovo “malato”: sia in termini di convenienza economica che politica. Forse, proprio la modifica che sta subendo la politica degli “zero problemi con i vicini” ed il maggior dinamismo regionale potrebbero dare una svolta al processo di adesione e far pendere l’ago della bilancia europea a favore dell’ingresso turco. Allo stato attuale, però, se non dovesse essere questo l’esito, probabilmente non sarà la Turchia a perdere: la strada verso la piena credibilità regionale sembra compiuta, le porte del Medio Oriente possono aprirsi completamente e fornire ampie prospettive all’ambizione turca.
Relazioni con l’Armenia
Nel 2009, Ankara e Yerevan, dopo anni di gelo, hanno firmato un protocollo per normalizzare i rapporti diplomatici e commerciali e per riaprire le frontiere tra i due paesi. Sembrava questo un passo in avanti nelle relazioni bilaterali, eppure il mancato riconoscimento turco del genocidio armeno del 1915-1916 resta un punto spinoso. Anzi, a surriscaldare le relazioni è, dapprima, intervenuta la decisione turca di smantellare la Statua dell’Umanità, il monumento all’amicizia tra i due Paesi, costruito a Kars, a due passi dalla frontiera armena: lo stesso Erdoğan ha definito la statua una “mostruosità”, dichiarando oltretutto inamissibile che l’opera sorgesse accanto a un santuario islamico. Inoltre, recentemente la questione è tornata alla ribalta: con l’approvazione dell’Assemblea nazionale francese della legge che punisce con il carcere chi nega il genocidio armeno, l’escalation di tensione tra Francia e Turchia ha segnato, probabilmente, un punto di non ritorno nei rapporti diplomatici tra i due paesi.
Erdoğan ha annunciato provvedimenti culturali, politici ed economici contro una legge “razzista e discriminatoria”, equivalente al “massacro della libertà d’opinione”. Questo strappo sull’Armenia è un ulteriore segnale dell’antagonismo che contrappone Francia e Turchia, sia in relazione alla “Primavera Araba”, e alla reciproca volontà di assurgere a paese leader, sia in termini di sostenibilità dell’ingresso di Ankara nell’Unione Europea. Infatti, le recenti scintille per la causa armena confermano la tendenza francese a non ritenere auspicabile l’adesione della Turchia al sistema europeo, prevedendo tutt’al più forme alternative di collaborazione, soprattutto commerciale.
Questione curda
Drammatico peso sta assumendo la questione del PKK in relazione non solo alla recentissima escalation di violenza tra l’esercito turco ed i guerriglieri curdi (in Turchia ed Iraq settentrionale) ma anche alla cattura e successivo rilascio da parte delle autorità iraniane del numero due del PKK, Murat Karayilan, lo scorso agosto. L’arresto da parte dell’Intelligence iraniana sulle montagne del Qandil e la successiva mancata consegna ai turchi rappresentano un importante campanello d’allarme circa la possibilità che l’Iran possa trattare con il PJAK (Partito della vita libera in Kurdistan, sezione iraniana del PKK) e/o sostenerlo in funzione anti-turca. Una collaborazione tra curdi ed iraniani in realtà sembra difficile da concretizzarsi (è nota la contrarietà iraniana alla costituzione di un Kurdistan indipendente, del resto in linea con Ankara); tuttavia la mancata risoluzione della questione curda si manifesta come neo permanente della leadership turca. Il trentennale conflitto con i ribelli curdi, infatti, si ripercuote anche sugli equilibri politici, all’interno del neo eletto Parlamento. Erdoğan aveva cercato di lanciare una proposta unitaria a tutti i partiti, prendendo a modello la Spagna nella lotta al separatismo basco. Tuttavia, egli non può contare sul partito filo curdo (Bdp), con cui è entrato in conflitto nella fase post elettorale per presunte connivenze con il PKK (il Bdp in realtà ammette di condividere la sua stessa base elettorale). Eppure, l’unica via d’uscita per garantire una soluzione al problema curdo potrà venire dal dibattito costituzionale: l’idea di un decentramento e di un’autonomia amministrativa per delle province che contano fino al 90% di popolazione curda diventa improrogabile e necessaria, anche se scalfisce in tal modo il sentimento di unitarietà dell’anima turca.
Riforme costituzionali interne e politica estera
Dopo la vittoria elettorale dello scorso giugno, che ha confermato il consenso popolare all’AKP al 50%, Erdoğan deve affrontare la questione Costituzione, dopo il passo referendario di più di un anno fa. Nonostante l’ampio consenso ottenuto, il Premier però non può contare su una maggioranza schiacciante e dunque non può affrontare in solitaria il tortuoso cammino di riforme giuridico-istituzionali, né tanto meno giungere ad una forma presidenziale così temuta da taluni. Sarà la prima Costituzione scritta in tempi di pace (tutte le altre sono state redatte a seguito di rivoluzioni, guerre o colpi di stato). Diventa necessario il confronto con i partiti d’opposizione: il partito Popolare Repubblicano (Chp) e il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp) che hanno visioni parzialmente opposte a quella neo-ottomana del premier, nonché con il Partito Curdo (Bdp), facendo auspicare un dialogo pluralistico che affronterà le tematiche più delicate. Il presidente della repubblica Abdullah Gul ha sottolineato che la nuova costituzione dovrebbe rafforzare i diritti fondamentali e le libertà di ciascuno, senza fare concessione alcuna sulle caratteristiche basilari della Repubblica, quali la democrazia, la laicità e lo Stato di diritto. La sfida è elevata, e tocca anche questioni quali la già accennata autonomia curda. Ma la sfida non resta solo sul piano interno, perché le riforme che si intende promuovere incidono inevitabilmente anche sulla condotta della politica estera di Ankara. Un crescente pluralismo politico sarebbe un importante elemento a sostegno di una legittimazione internazionale definitiva, quale attore di spicco soprattutto nella regione. E la volontà di riconciliazione con l’area curda affronta la sua più grande sfida proprio con l’elaborazione della nuova carta costituzionale. Certo, la realizzazione di riforme che rendano il paese più democratico e laico lascia aperto il dubbio circa la tenuta delle relazioni che lo stesso condurrà con i paesi della regione che, nel frattempo, stanno vivendo l’emersione dell’Islam politico alla guida dei regimi di transizione. Volendo trarre lezioni dal passato, non sembra uno scenario preoccupante: il governo turco di Erdoğan si è caratterizzato negli anni proprio per la capacità di adattamento alle circostanze regionali ed internazionali, secondo un’ottica “neo-ottomana”, dunque incentrata sull’interesse del paese. Le riforme costituzionali potranno essere un trampolino di lancio verso la conclusione dei negoziati con Bruxelles (posto che è ormai condivisa l’idea di giungere a soddisfare i criteri europei anche nel caso in cui l’adesione non si materializzasse) e, al tempo stesso, rafforzare il sistema politico turco fornendo solide basi per affrontare il calderone mediorientale.