La Turchia e il genocidio armeno (articolo del 2011)

Creato il 27 dicembre 2012 da Istanbulavrupa

(allo scopo di disinnescare la disinformazione dilagante, mi permettodi proporre un mio articolo pubblicato nel maggio 2011 sul settimanale Il Futurista)

Armenia 0, Turchia 2. Ma il risultato sul campo di quella partita valida per le qualificazioni mondiali, il 6 settembre 2008 a Yerevan, per una volta è stato superfluo: e ben più importante, in tribuna, la presenza del presidente Gül – la prima volta di un capo di Stato turco nell’Armenia indipendente del post-Urss. L’hanno chiamata la diplomazia del football: l’invito del presidente Sargsyan, in carica da qualche mese, ad assistere al match tra le due nazionali e a dare simbolicamente avvio a un negoziato di normalizzazione. Obiettivo, la riapertura della frontiera: chiusa da Ankara nel 1993 come risposta al conflitto del Nagorno-Karabakh, enclave armena nel territorio dell’Azerbaigian a maggioranza musulmana e turcofona occupata dalle truppe armene. Il frutto delle difficili e tormentate trattative tra i due paesi è stato la firma degli storici protocolli di Zurigo, il 10 ottobre 2009: un frutto acerbo e mai maturato, visto che i due governi non li hanno ancora portati alla ratifica dei rispettivi parlamenti e tutto il processo di normalizzazione, tra recriminazioni reciproche, è in fase di stallo. Le ragioni? Da parte turca, la solidarietà verso l’Azerbaigian “stato fratello”: in attesa di una soluzione condivisa al conflitto del Nagorno-Karabakh e della fine dell’occupazione; da parte armena, la richiesta che la Turchia riconosca formalmente i massacri contro gli armeni ottomani del 1915-1918 come genocidio.

In effetti, uno dei test decisivi sul compimento delle riforme democratiche in Turchia, sul raggiungimento degli standard europei in termini di libertà e diritti, è proprio il trattamento della minoranza di origine armena: della sua memoria, del suo patrimonio culturale, della sua identità e della sua lingua, della legittima aspirazione a una posizione di pari dignità nella società e nel sistema politico-istituzionale turchi. Richieste il cui accoglimento non è scontato, perché invece richiede il superamento di un tabù impronunciabile fino a pochi anni fa: la grande catastrofe, la Meds Yeghern, la pulizia etnica, il genocidio che ha ridotto la popolazione armena da 1,2-1,8 milioni in epoca ottomana ai 50-70.000 di oggi. Tabù impronunciabile e penalmente perseguibile, che nella Turchia dell’Akp, grazie soprattutto al coraggio e alle provocazioni della società civile, è però in via di superamento all’interno di un più vasto processo di ridefinizione dell’identità nazionale e della cittadinanza, a beneficio di tutte le minoranze etniche e religiose: non solo armeni, ma anche rum greco-ortodossi, siriaci, assiri, nestoriani, georgiani, circassi, lazi, soprattutto curdi e alevi – nemici interni della Turchia kemalista, partner ma ancora discriminati nella Turchia del 2011, soci paritari nella nuova Turchia che il primo ministro Erdoğan vuole costruire entro il centenario del 2023. Una nuova Turchia, finalmente membro dell’Unione europea.

La visita a Yerevan del presidente Gül non è stata il primo passo di questo processo virtuoso: che è invece cominciato con una conferenza, tre anni prima. Una conferenza accademica, di alto profilo scientifico e coi migliori specialisti internazionali, organizzata nel maggio del 2005 dalle università Boğaziçi (pubblica), Sabancı e Bilgi (private), sul tema: “Gli armeni ottomani e il declino dell’Impero. Responsabilità scientifica e problemi di democrazia”. La prima conferenza del genere in Turchia a essere organizzata direttamente da istituti di ricerca indipendenti e non dallo Stato o da storici di affiliazione governativa: prima cancellata a causa dell’intervento a gamba tesa del ministro della giustizia Cemil Çiçek che parlò di “traditori” e “pugnalate alle spalle”, poi rimessa in calendario per il 23-25 settembre dopo l’intervento in prima persona di Erdoğan (proprio alla vigilia dell’accettazione della Turchia come paese candidato all’Ue), cancellata un’altra volta e in extremis da un giudice, finalmente condensata nelle due sole giornate del 24 e 25 a Bilgi dopo proteste da ogni dove e il ravvedimento del ministro Çiçek – tra le proteste di un nutrito gruppo di ultranazionalisti e il lancio di qualche uovo.

Un tema spinoso e controverso, sul quale tuttora vengono combattute guerre storiografiche estremamente politicizzate da parte di opposte fazioni nazionali: tra chi chiede un riconoscimento formale e universale del genocidio e chi nega ogni responsabilità e minimizza numeri e intenti. Fu vero genocidio? La risposta non può essere secca, semplicemente perché la definizione di genocidio troppo risente dell’incomparabile unicità della Shoah: e più che sulla semantica conviene concentrarsi sull’interpretazione dei fatti, alla cui ricostruzione la più recente ricerca archivistica ha dato enormi ma ancora appellabili contributi (alcuni archivi sono inaccessibili, altri aspettano di essere esplorati).

E l’interpretazione più originale e convincente appare quella di Fuat Dündar, storico di origini curde e già ingegnere, uno dei partecipanti alla conferenza del 2005, che ha utilizzato le sue conoscenze matematiche per decifrare i mutamenti etnici e demografici in Anatolia dal 1913 al 1918, servendosi di telegrammi cifrati e dati dei censimenti: un’ottica di lungo periodo che parte dalle guerre balcaniche del 1912-1913 e dalle espulsioni reciproche e che lo porta a concludere che le deportazioni del 1915 degli armeni sono state solo uno degli elementi – il più distruttivo, beninteso – di un sistematico progetto di ingegneria etnica voluto dai Giovani turchi del Comitato di unione e progresso – loro stessi provenienti dai Balcani, al potere con un golpe dal gennaio 1913 dopo la fase costituzionale del 1908-1912, vittime prima di diventare carnefici: Enver Bey, Cemal Paşa, Talat Paşa.

L’obiettivo: la preponderanza etnica dei turchi ovunque in Anatolia, nel territorio che avrebbe dovuto far parte dello Stato post-imperiale; a maggior ragione nell’est abitato dagli armeni indipendentisti e preso di mira dalla Russia zarista alla vigilia della Prima guerra mondiale, in pericolo dopo i primi rovesci bellici. Le conseguenze: la retata di oltre 200 intellettuali armeni di Istanbul nella notte tra il 23 e 24 aprile e la loro deportazione (metà morirono, violentemente o di stenti), i massacri, le marce nel deserto, la pulizia etnica nell’Armenia ottomana, centinaia di migliaia di vittime, molte conversioni all’Islam per salvarsi la vita (e i loro discendenti, oggi, cominciano a riscoprire le loro sorprendenti origini), circa 300.000 sopravvissuti secondo le stime di Fuat Dündar.

Parlarne è costato un processo al premio Nobel Orhan Pamuk per violazione dell’art. 301 del codice penale che punisce le offese alla “turchicità”, un processo e la vita al giornalista Hrant Dink, il direttore del settimanale turco-armeno Agos freddato da un giovane ultranazionalista il 19 gennaio 2007: e la riposta della società civile, oltre 200.000 persone al funerale – armeni, ma soprattutto turchi – che gridavano “anche io sono armeno, anche io sono Hrant Dink”, è stato un altro decisivo momento di svolta; come la petizione online di fine 2008, lanciata da un gruppo di intellettuali turchi molto in vista, per scusarsi di quanto accaduto nel 1915: “Il mio cuore non accetta il fatto che la gente sia insensibile alla grande tragedia che gli armeni ottomani hanno vissuto nel 1915. Respingo questa ingiustizia e condividendo il loro dolore e sentimento, chiedo scusa ai miei fratelli armeni”. Ma in quel caso Erdoğan non la prese bene, temendo poco intelligentemente un indebolimento della sua posizione negoziale nei confronti dell’Armenia.

Ulteriore passo in avanti, la commemorazione del Meds Yeghern da parte di alcune associazioni il 24 aprile 2010, di fronte alla stazione ferroviaria di Haydarpaşa da cui partirono i deportati; e quest’anno, una commemorazione ancora più solenne e partecipata, a piazza Taksim nel cuore di Istanbul europea (altre ne sono state organizzate simultaneamente ad Ankara, İzmir, Diyarbakır e Bodrum): qualche centinaia di persone, un drappo nero, lo slogan in cinque lingue “bu acı hapimizin” (“questa sofferenza appartiene a noi”: a noi turchi), garofani, candele, silenzio, il suono struggente del duduk, i nomi delle prime vittime, la volontà di riconciliarsi e di voltar pagina verso una Turchia migliore.

Il centro culturale Depo, gestito dalla Fondazione Anadolu che opera per la preservazione delle diversità culturali e il riconoscimento dei diritti delle minoranze, ha deciso invece di ricordare il 24 aprile con due mostre fotografiche, inaugurate a fine aprile e aperte fino al 5 giugno. La prima è funerea nei temi e nell’uso esclusivo del bianco e nero: “Gli occhi che bruciano”, del fotografo franco-armeno Antoine Agoudjian, con ritratti sofferenti e scene di tragica vita quotidiana della diaspora armena in Medio oriente, fino alle vie della deportazione del deserto di Deir el-Zor, testimonianze di prossima estinzione e frammenti memoriali in cui le tenebre intense prevalgono costantemente sulla luce tagliente – sofferenza e morte, di un genocidio è che è ancora presente e indelebile nei luoghi e negli animi. La seconda è un viaggio tra memoria e auspici di riconciliazione, a colori: “Horovel” (le canzoni tradizionali del lavoro condiviso nei campi), in cui il giovane fotografo turco Erhan Arık presenta ritratti dai villaggi di confine, luoghi armeni in cui gli armeni sono ormai una rarità (come Ardahan, dove è nato) o luoghi di rifugio per i sopravvissuti e i lori discendenti, da una parte chi preferisce dimenticare e dall’altra chi si ostina a ricordare – un confine spesso invalicabile, almeno fino a pochi anni fa: che l’arte aiuta invece a scavalcare.

Ma anche il governo ha cominciato a fare la sua parte: a cominciare dal riconoscimento e dalla preservazione del patrimonio culturale armeno, costantemente su impulso del ministro della cultura e del turismo Ertuğrul Günay. Il 19 settembre 2010, ad esempio, per la prima volta dal 1915 è stata celebrata la messa nella piccola chiesa della Santa croce sull’isola di Akhtamar, nel lago di Van all’estremità orientale della Turchia: una chiesa che risale al X secolo ed è considerata uno dei maggiori tesori architettonici e artistici dell’Anatolia armena, riaperta solo nel 2007 come museo dopo pesanti restauri alle strutture, agli affreschi, ai celebri altorilievi di ispirazione biblica; mentre in occasione di Istanbul Capitale europea della cultura 2010 è stato celebrato Gomidas, il fondatore della musica classica armena e uno dei deportati del 24 aprile 1915 (non morì, ma impazzì), ed è stato avviato il restauro del complesso monastico di Vortvots Vorodman a Istanbul; e proprio degli ultimi giorni è l’annuncio di una partnership col World Monuments Fund per il recupero e la salvaguardia della cattedrale e della chiesa del Santo Salvatore di Ari, città armena fiorentissima in epoca medievale e oggi completamente abbandonata. Un altro segno tangibile di ricostruzione e di rinascita: per la comunità armena e per la Turchia.

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