La diffusione dei movimenti di protesta contro i regimi autoritari del Nord Africa e del Vicino e Medio Oriente ha creato nuovi spazi per il dispiegarsi dell’influenza turca nella regione. I partiti politici saliti al potere dopo la cacciata dei tiranni hanno cercato una piena legittimazione internazionale annunciando come il loro modello sarebbe stata la Turchia, indicata come felice esempio di conservatorismo, capitalismo e partecipazione democratica. Ankara ha così guadagnato una forte presa sulle società arabo-islamiche, che le ha permesso di accrescere il tanto proclamato soft power posto alla base della sua politica estera. Ciononostante i recenti sviluppi della guerra civile siriana e la possibilità che tale crisi si allarghi sino a diventare un conflitto regionale rischiano di riportare nuovamente la Turchia al suo tradizionale ruolo di gendarme della regione mediorientale. Date tali premesse questo articolo vuole analizzare gli effetti che la Primavera Araba e in particolare la crisi siriana hanno avuto sul soft power turco nella regione mediorientale.
La Primavera Araba: una sfida alla politica estera turca
Quando il suicidio del giovane Mohamed Bouazizi in una piazza di Tunisi nel dicembre 2010 ha dato inizio alla rivolta contro il regime del Presidente Ben Ali, la Turchia si trovava ad avere ottimi legami economici e politici con tutti i paesi dell’area mediorientale. In quella fase la politica estera turca si poneva come principale guardiano dello status quo. Il suo fine era quello di limitare al minimo tutti i possibili rischi di eventi traumatici per l’ordine esistente, ponendosi in maniera antagonista contro chi quell’ordine voleva o si presumeva volesse modificare. In quest’ottica possono essere analizzati sia il netto no espresso dal parlamento di Ankara al passaggio di truppe statunitensi in territorio turco all’epoca dell’invasione dell’Iraq nel 2003, sia il raffreddamento dei rapporti con Israele (visto come un continuo fomentatore di turbolenze e instabilità regionale). Questa che è stata una politica di real politik mal si adattava alla premesse teoriche che lo stesso capo della diplomazia turca, il Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, aveva definito in numerosi suoi saggi. Infatti, a suo dire il fine ultimo della politica estera della Turchia sarebbe dovuto essere quello di promuovere la tutela dei diritti umani e la diffusione di forme di governo maggiormente rappresentative nei paesi islamici, e il potenziamento del soft power di una Turchia forte della sua storia, della sua economia e della sua società libera e dinamica sarebbe stato il migliore mezzo per raggiungere tale scopo1.
Lo scoppio della Primavera Araba ha trovato Ankara (in maniera non dissimile dalle altre capitali europee e occidentali) impreparata a gestire una crisi di tale portata e quindi nell’immediato costretta a porsi in maniera attendista verso una situazione in continua evoluzione. Mentre in una prima fase l’appoggio ai movimenti di protesta è stato cauto e a tratti titubante, anche al fine di preservare i buoni rapporti con i regimi al potere, l’aumento delle violenze ha costretto la Turchia ad attuare una forte scelta di campo. Le condanne provenienti da Occidente nei confronti della repressione dei regimi al potere hanno fatto il paio con la spinta attuata dall’Arabia Saudita e Qatar nell’appoggio delle rivolte contro regimi laici considerati un avversario ideologico del conservatorismo wahhabita. Posta fra queste forze contrapposte, la politica estera turca rischiava di essere considerata una politica di puri interessi economici e strategici, così negando sia la sue premesse teoriche sia il suo potenziale ruolo di modello a livello regionale. In questa chiave è quindi possibile spiegare il progressivo irrigidimento dell’establishment turco verso i regimi arabi laici di Tunisia, Libia, Egitto e Siria.
Il caso della Siria, a differenza dei precedenti, si caratterizza per particolari elementi che lo rendono una insidia per la diplomazia turca. Infatti esso contiene al suo interno diverse aspetti, da quelli relativi alla tutela dei diritti umani e della libertà di espressione, a quelli prettamente settari rilevabili nel confronto fra sciiti e sunniti e riferibili al contesto regionale di “Guerra Fredda” fra l’Iran e il cosiddetto asse sunnita, sino a quello interno legato ai problemi di sicurezza nazionale che la crisi siriana pone in particolare rispetto all’azione del PKK che mantiene basi arretrate in Siria dalle quali potrebbe destabilizzare l’incerto equilibrio delle regioni orientali dell’Anatolia.
In questa chiave è necessaria una analisi dei diversi aspetti relativi al soft power turco in riferimento agli ambiti precedentemente indicati, sintetizzabili all’appetibilità del modello turco rispetto ai paesi arabi; alle implicazioni sul soft power di Ankara in riferimento alla contrapposizione sciiti-sunniti, sino alla valutazione dei risvolti interni che un inasprimento della crisi siriana che la trasformi in un conflitto regionale possa avere sulle più importanti linee guida della politica estera turca.
Una premessa teorica: il concetto di soft power
Il soft power è stato e continua ad essere un termine di largo uso in materia di politica internazionale, sin dalla sua prima definizione nel lontano 1990 ad opera dello studioso statunitense Joseph S. Nye. Nye indica come il soft power sia dato dalla capacità di uno stato di raggiungere “the outcomes it prefers in world politics because other states want to follow it or have agreed to a situation that produces such effects”2. Il concetto di soft power non è certo un concetto totalmente nuovo. Secondo Morghenthau, la lotta per il potere a livello internazionale è anche una lotta per la mente degli uomini: “la potenza di uno stato dipende non solo dall’abilità della sua diplomazia e dalla forza del suo esercito; ma anche da quanto riesca a conquistarsi le simpatie degli altri stati”3. Il soft power è dunque il potere di blandire e affascinare altri individui, soggetti di qualsiasi natura, popoli e stati al fine che essi agiscano secondo le proprie preferenze. Le principali risorse del soft power sono tre: l’attrazione che la cultura di un paese esercita nei confronti degli altri popoli; l’ideologia che esso incarna e le istituzioni internazionali gestite o egemonizzate dallo stato in questione.
Il rapporto fra soft power e hard power è punto essenziale. Nye indica come il soft power sia “a second aspect of power”, con ciò riprendendo la tradizionale concezione del potere espressa da Morgenthau che lo vede come un concetto onnicomprensivo che “può comprendere tutto ciò che stabilisce e mantiene il controllo dell’uomo sull’uomo”4. Ciò implica come fra le due declinazioni del potere vi sia una differenza nei mezzi e nelle modalità di azione ma non negli obiettivi, che consistono nell’aumento della potenza dello stato. Quale rapporto esiste fra le due tipologie? Esse sono distinte nei loro ambiti oppure ognuna di esse determina degli effetti sull’altra? Un eccessivo ricorso all’hard power può limitare la possibilità di fare ricorso al soft power e viceversa?
In via preliminare è possibile sostenere come fra le due tipologie di potere vi sia un rapporto che può andare dall’influenza (positiva o negativa) dell’una sull’altra alla reciproca indifferenza. Lo stesso Nye indica come il rapporto fra hard e soft power generalmente non sia un gioco a somma zero. Può infatti accadere che uno stato che fondi la sua politica estera sulla forza e sui successi militari della propria macchina bellica riesca a produrre un soft power basato sull’aura di invincibilità che si è guadagnato. Ciò non significa comunque che il soft power dipenda, in alcun modo, dall’hard power. Nye cita l’esempio del Vaticano, che detiene un forte soft power a dispetto dell’essere completamente privo di forza militare.
Il rapporto fra hard power e soft power è quindi un rapporto complesso. A volte i due poteri possono favorirsi, altre volte ostacolarsi a vicenda. In alcuni casi un eccesso di hard power può consumare il patrimonio di simpatia e di appeal che un paese detiene nel panorama internazionale. Ciò è avvenuto con l’invasione anglo-americana dell’Iraq, quando gli USA perdettero molta della simpatia guadagnata a livello globale in conseguenza degli attentati dell’undici settembre 2001.
Ritornando al caso di specie, è necessario valutare quali siano stati gli effetti di un sempre maggior ricorso all’hard power da parte della Turchia nel grande fenomeno che ha preso il nome di Primavera Araba. L’appoggio, economico e militare, dato ai ribelli libici prima, e ora all’opposizione siriana potrebbero avere intaccato il grande patrimonio di influenza che la Turchia aveva guadagnato nella regione. Di converso tale influenza potrebbe essere aumentata in alcuni settori, come ad esempio le fazioni politiche uscite vittoriose dalle rivolte, mentre potrebbe essere scemata in altri.
Date queste premesse teoriche è necessario analizzare il contesto specifico della politica estera turca per valutare se e come gli avvenimenti della Primavera Araba abbiano aumentato o meno e in quale ambito il soft power della Turchia.
Primavera Araba e soft power turco
Date le caratteristiche intrinseche del soft power, si vuole analizzare il soft power turco in due ambiti distinti. Il primo ambito è quello dei paesi del Nord Africa e in particolare quelli attraversati dalla “Primavera Araba”. Il secondo ambito è quello regionale del Medio Oriente allargato, dove si contrappongono differenze settarie fra sciiti e sunniti, e dove il bilancio riguardante il soft power turco appare maggiormente a tinte grigie.
1. Nord Africa
L’attrazione che la Turchia esercita nei confronti dei paesi nordafricani attraversati dalla Primavera Araba è senza dubbio aumentata rispetto al passato. La Turchia è sempre più percepita come modello che sintetizza le istanza democratiche e quelle sociali riferite allo sviluppo economico e alla preservazione dell’identità religiosa.
Se il soft power può essere misurato, almeno in maniera parziale, dai flussi commerciali, che danno un’idea dell’appeal per i prodotti, la società e la cultura del paese di provenienza, si scopre come la Turchia abbia esteso in maniera massiccia la sua influenza in particolare in Egitto. Infatti, secondo i dati forniti dall’ente turco di statistica, Turkstat, nel periodo aprile-settembre 2012 la Turchia ha ampiamente superato i dati sull’export relativi allo stesso periodo del 2011, attestandosi alla cifra record di quasi 2,8 miliardi di dollari, con un incremento del 40%5. L’Egitto sembra essere il paese più promettente per una diffusione dell’influenza turca seppure questo processo non sembra essere scevro da difficoltà interne. Nel nuovo rapporto fra Ankara e Il Cairo sono da annoverare, nel campo politico, il sempre maggiore feeling fra le leadership dei due paesi, col presidente turco Erdogan e il suo omologo egiziano Morsi impegnati in una stretta partnership in particolare nella recente crisi di Gaza. Nel campo economico la Turchia ha voluto dare il suo contributo al rafforzamento della sofferente economia egiziana garantendo un prestito di 1 miliardo di dollari al governo de Il Cairo, con il quale ha stretto una partnership anche nel campo della difesa che ha visto le forze armate turche ed egiziane impegnate in esercitazioni congiunte nel Mediterraneo orientale.
A livello politico la replicabilità del modello turco sembra ancora essere al di là dal venire. Infatti non vi è stata alcuna omologazione ideologica verso l’AKP del braccio politico della Fratellanza Musulmana, il Partito Giustizia e Libertà del Presidente Morsi. Infatti, se si eccettua la costituzione di un piccolo partito che si richiama direttamente all’AKP, costituito da fuoriusciti della Fratellanza, la Corrente Egiziana, la politica egiziana resta caratterizzata da un forte nazionalismo, che determina il rifiuto di qualsiasi modello esterno. Tale nazionalismo è confermato dal sondaggio condotto dalla Gallup6, secondo cui solo l’11% degli egiziani sarebbe favorevole all’adozione del modello turco, a fronte di una metà del campione che non mostra alcuna preferenza per il ricorso a modelli esterni. Il rapporto fra l’Egitto e la Turchia è visto da parte degli egiziani come una partnership fra due potenze regionali in ascesa, soprattutto dopo che l’appeal degli Stati Uniti è fortemente calato nel paese. Infatti, secondo il sondaggio Gallup7 del marzo 2012 il 60% degli egiziani valuta come positive le relazioni con la Turchia, mentre il rapporto con gli Stati Uniti, che rimangono il più grande finanziatore del Cairo, è valutato positivamente solo dal 28% degli intervistati (con un calo del 13% dalla rilevazione del dicembre 2011). Ciò dunque non significa che gli egiziani vogliano abdicare al loro tradizionale ruolo di potenza regionale in favore di Ankara. Secondo lo stesso sondaggio solo il 37% sarebbe disposto ad una leadership turca nella regione mediorientale, mentre il 44% si mostra contrario.
La Tunisia ha mostrato anch’essa una certa predilezione per il modello turco. Secondo l’attuale dirigenza tunisina impersonata da Ghannouchi, presidente del Partito Ennahda, vicino anch’esso alla Fratellanza Musulmana, “Turkey not only offers a model to emulate, but also has become an inspiration for Tunisians”, che furono sempre orgogliosi “to be part of the Ottoman Empire”8. La Turchia ha cercato di tessere forti legami commerciali con la Tunisia, che per caratteristiche istituzionali, economiche e sociali sembra essere, fra le nazioni nordafricane, la più vicina alla realtà turca9. La Turchia ha patrocinato la costituzione di un “Turkey-Tunisia-Libya tripartite forum on business”, riunitosi nel gennaio 2012 ad Hammamet, per favorire e potenziare gli investimenti turchi nell’area, e dove si è discussa la costituzione di una zona industriale turca a circa 100 km dal confine libico. Riguardo la Libia, la nuova dirigenza politica guarda alla Turchia come un fratello maggiore, ristabilendo lo stretto legame che legava i vilayet di Tripoli, Cirenaica e Fezzan all’Impero Ottomano10. La nuova Libia ha ipotizzato di applicare il modello educativo turco e di ispirarsi alla costituzione turca nei lavori di redazione della nuova costituzione. Per converso la Turchia si è impegnata nell’addestramento della polizia e nell’assistenza all’esercito libico11.
2. Medio Oriente
A livello regionale la Turchia ha perseguito una politica volta a raggiungere un ruolo di central country, nella veste di potenza regionale e di più importante rappresentante dei paesi musulmani. Questa politica a tratti “ecumenica” della Turchia, esemplificata dal principio guida della “zero problem policy towards neighbours” si è scontrata con i tradizionali problemi mediorientali legati alle differenze etniche, religiose e alle storiche contrapposizioni dell’area, che ne hanno impedito un’apprezzabile affermazione. La Primavera Araba è stata forse l’elemento dirimente per la valutazione del parziale insuccesso di tale politica in quanto ha riportato a galla le tradizionali contrapposizioni che la politica estera turca ambiva a voler superare. Con la Primavera Araba si è in parte sancita una diminuzione del soft power turco a livello regionale, in particolare a causa dell’interventismo in Siria, che ha alienato i favori di parte della popolazione di fede sciita che teme si tratti della manifestazione di una politica settaria. La durezza della politica turca nei confronti del regime di Assad fa infatti il paio con la minore enfasi indirizzata verso la repressione della primavera araba in Bahrein, dove le proteste dei manifestanti – a maggioranza sciita – contro la famiglia regnante di religione sunnita sono finora rimaste inascoltate. Il Bahrein pare essere l’esempio di una contrapposizione fra un asse sunnita, composto da Arabia Saudita e Qatar con la parziale partecipazione turca, e un blocco sciita, a guida iraniana, del quale fanno parte Hezbollah, il regime alawita di Assad e al quale sembra guardare con favore il nuovo Iraq post Saddam.
A corroborare questa ipotesi vi sono i dati del sondaggio The Perception of Turkey in the Middle East 2012 presentato dal TESEV, che mostra un calo della popolarità della Turchia nella regione mediorientale nel 2012. Infatti se solo nel 2011 la Turchia si classificava prima, raccogliendo il 78% di consenso, nel 2012 ha perso 9 punti percentuali, arrivando al 69%. Tale diminuzione ha una intensità maggiore in particolare nei paesi di religione sciita o dove gli sciiti costituiscono una importante minoranza. L’ammontare delle opinioni favorevoli è scesa dal 44 al 28% in Siria, dal 74 al 55% in Iraq, dal 78 al 63% in Libano e dal 71 al 59% in Iran12.
Il trend negativo si ripete anche riguardo le opinioni sul ruolo della Turchia nella Primavera Araba. Infatti mentre nel 2011 il 56% degli intervistati aveva espresso il suo favore verso la politica estera turca, nel 2012 tale percentuale è scesa al 42%.
Considerazioni sugli effetti della Primavera Araba in Siria sul sistema di soft power turco
La militarizzazione delle proteste in Siria ha creato non pochi problemi alla politica estera turca. Da un punto di vista esterno si è determinato il pericolo che la Turchia venga vista come uno stato che porta avanti una politica estera settaria, volta alla difesa della popolazione sunnita a discapito degli altri orientamenti religiosi. Ciò diminuisce la sua influenza sulle popolazioni di religione sciita, e di conseguenza limita le possibilità del paese di guadagnarsi il ruolo di potenza rappresentante dei musulmani nel mondo. L’attivo ruolo nella crisi siriana, oltre alla politica di vicinanza al popolo palestinese, ha fatto guadagnare alla Turchia i favori della popolazione sunnita come nel caso dell’Egitto, anche se non bisognerebbe sottovalutare la possibilità che il nazionalismo arabo possa impedire alla Turchia di assurgere al ruolo di più importante potenza regionale.
Nel campo interno, invece, l’acuirsi della crisi siriana ha fatto assurgere un problema di politica estera al livello di una questione di sicurezza interna turca, col rischio di veder indebolito lo stesso ambito applicativo dell’approccio basato sul soft power. Infatti la presenza di un conflitto agli immediati confini, le relative problematiche riguardanti il flusso di profughi e rifugiati e la presenza di basi arretrate in territorio siriano del Partito dei lavoratori del Kurdistan, il PKK, potrebbe spingere la Turchia ad abbandonare la sua predilezione per il soft power, così da riacquisire il suo tradizionale approccio basato sulla sicurezza. Infatti la crisi siriana, in particolare nel caso essa raggiunga un maggiore grado di conflittualità fra lealisti e ribelli, potrebbe presto trasformarsi in un conflitto regionale, una guerra sporca come quella combattuta in Libano durante gli anni Ottanta, nella quale si confronterebbero i diversi attori mediorientali. In questo scenario le basi del PKK in territorio siriano potrebbero divenire una vera e propria spina nel fianco, dal quale potrebbero essere alimentate attività di guerriglia e terroristiche. Una ulteriore militarizzazione del conflitto creerebbe una sorta di processo a catena che vedrebbe i militari turchi guadagnare un sempre maggiore ruolo nei processi decisionali al fine di preservare la sicurezza nazionale. Ciò potrebbe determinare una involuzione dell’approccio turco basato sul soft power, danneggiando il maggior cambiamento adottato dalla Turchia nella conduzione della politica estera e nella visione delle relazioni internazionali.