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La valanga nera dell’invidia

Creato il 13 aprile 2011 da Albertocapece

La valanga nera dell’invidiaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Blues del letto vuoto, si chiama una canzone di Bessie Smith, “quando hai un grande amore”, dice, “non andare mai in giro a spargere la notizia”. Si rischia di restare sole, con il blues nel letto vuoto. E chiunque sia felice sa che è meglio nasconderla la felicità perché si rischia l’invidia degli dei.
Ma si può essere oggetto di invidia anche se non si è in uno stato beato, fortunato o privilegiato: l’invidia che induce sentimenti negativi, che sfiorano il rancore, l’odio, l’ostilità, agisce perlopiù come un meccanismo di difesa, come un tentativo di recuperare la fiducia e la stima di sé stessi, attraverso la svalutazione di chi sembra possieda di più: in termini di fortuna, di successi personali, di possibilità economiche, anche, pensava Freud, del pene, magari solo simbolico delle libertà delle quali godeva il maschio in tempi di più esplicita repressione.
Insomma l’invidia è come il razzismo, riguarda chi la prova indipendentemente dal suo oggetto.
E come il razzismo succede che in momenti storici diventi un fenomeno pubblico. Un senso comune negativo e generalizzato, alimentato dall’alto in modo consapevole perché si accompagna a diffidenza, egoismo, competitività, ambizioni e personalismi, lesivi della coesione sociale, della partecipazione e infine della democrazia.
Un regime che ha aperto innumerevoli cantieri per abbattere e scardinare i sentimenti morali della nazione non poteva trascurare questo motore maligno di divisione e di conflitto. Fisiologico laddove lievitano contraddizioni che diventano contrapposizioni.
È esemplare il conflitto che va materializzandosi sempre di più, quella rottura del patto generazionale promossa da un’autorevole avanguardia di quella modernità arretrata che ha arruolato imprenditori critici pronti al salto in politica e economisti che pensano di temperare lo scontro di classe facendolo retrocedere a scaramuccia tra padri e figli. E ai quali non viene in mente che la competizione spinta tra diritti negati ai giovani e tutele esaltate di docenti troppo protetti, pensionati troppo abbienti e anziani troppo garantiti si risolve liberando risorse dall’alto, rimettendo in gioco il bottino e la rendita dei ceti privilegiati, di quel 10% di popolazione al vertice della piramide che si accaparra la metà della ricchezza nazionale. E che artatamente dimentica che è proprio dei diritti la capacità di crescere in modo solidale, che solo la tutela moltiplica tutela, che la loro forza è consolidata dalla loro indivisibilità e dalla condizione irrinunciabile di essere applicati in modo quanto più possibile diffuso e uniforme.
E così si crea ancora più insanabile divisione una separatezza bloccata dove una cittadinanza esclusa vive come “an other country” a guardare con invidia appunto una ricchezza straniera e irraggiungibile.
È l’invidia sociale che ormai innerva malignamente nuovi e inediti conflitti come antiche guerre, combattuti spesso tra altrettanto poveri e altrettanto indigenti nei quali sono stati inseminati e hanno germinato rancore e risentimento. Accecati dalla passione triste, perché l’invidia (in-video) colpisce la vista come nell’allegoria giottesca degli Scrovegni o nel Purgatorio dantesco e oltraggia l’altro da sé ma procura sofferenza, il dolore della “percezione delle differenze con proprio svantaggio”.
Mi pare difficile persuadersi come Tocqueville che l’invidia rientri nella gamma delle passioni democratiche, un fenomeno che scaturisce naturalmente nelle società egualitarie fungendo da “calmiere” se non da antidoto alla svolta aspra e aperta dei conflitti.
Si, è probabile che possieda una forza positiva in sé l’invidia come manifestazione dello scandalo per la disuguaglianza: Nietzsche la vede addirittura come un spirito di vendetta, se non come motore della rivolta degli schiavi, dei “cuori di tarantole”.
È che improvvisamente pare che questo rancoroso sentimento abbia destinatari universali e il conflitto sia diventato orizzontale indirizzandosi non solo verso chi ha ma soprattutto verso chi potrebbe avere, mobilitandosi nel campo di battaglia dei territori marginali della ricchezza sociale.
Così non potendo ridurre la distanza dagli strati sociali superiori si cerca di allargare quella che separa dagli ultimi, cercando di spingerli sempre più giù, annichilendo la loro speranza, togliendo loro anche la minima aspettativa di cittadinanza comune. Chi detiene anche indebitamente qualche eccedenza si sente titolato a escludere, a rendere marginali gli aspiranti a elementari acquisizioni, come fossero immeritate e non dovute.
Il deficit di civiltà e umanità contraddice Boccaccio. Pare sia arrivato il momento che neppure la “miseria protegge dall’invidia”.


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