Vanedda è una parola siciliana. Vuol dire stradina, vicoletto. La mia nonna paterna abitava in una vanedda di Modica, nella parte antica della città. La strada si chiama Via Santi Quaranta, e lei abitava al civico 40. Quando mio papà aveva conosciuto mia mamma, e forse non erano neanche ancora fidanzati, le aveva detto che abitava, appunto, in Via Santi Quaranta n. 40, e chiaramente mia mamma aveva pensato a uno scherzo.
E’ una strada molto stretta e lunga, in cui sicuramente non riesce a passare un’auto. L’auto arrivava fino a un certo punto, proprio all’inizio, e poi si fermava là. Per la precisione, arrivava fino a dove c’erano i cassonetti della spazzatura, che in realtà non erano veri cassonetti, ma quei contenitori cilindrici che si aprivano dall’alto. E comunque al massimo la spazzatura venivano a ritirarla con l’ape.
La bellezza della vanedda stava nel fatto di essere molto vissuta durante la giornata, soprattutto da noi ragazzi che ci giocavamo, occupandola tutta. Dato che era molto stretta, la densità aumentava in fretta (bastava essere in 3 e già non si passava più). Anche la sera c’era un discreto movimento, perchè stavano fuori anche gli adulti, a chiaccherare e a godere del fresco.
I giochi che andavano per la maggiore erano Nascondino, Strega Comanda Colore, Stregone mangia frutta (che a dire il vero non ricordo in cosa consistesse, ma ricordo bene il nome, anche perchè una bambina non riusciva a dire la r, quindi le usciva sempre un divertentissimo fLutta) e Un due tre stella!.
Giocare a nascondino era effettivamente una tragedia per chi doveva fare tana e un gran divertimento per chi si doveva nascondere, perchè in una stradina stretta e lunga, piena di anfratti e nicchie, nascondersi era facilissimo.
Ci piaceva anche Nomi cose città. Ci mettevamo sul terrazzino di Daniela, seduti sui gradini con foglio e penna e venivano fuori cose super creative.
La sera ci dedicavamo a giochi più contemplativi, tipo Telefono senza fili. Ognuno portava la sua seggioletta, che intervallavamo a qualche gradino delle case, e ci parlavamo all’orecchio, una fila di 10 bambini, più o meno, di varie età. Anchè in quel caso uscivano fuori cose molto creative.
C’era un bambino, forse si chiamava Ignazio, che ogni giorno portava fuori qualche gioco nuovo: un trattore, un cagnolino automatico, una palla… non so come facesse… forse il papà lavorava in un negozio di giocattoli? però lui abitava già più verso la fine della vanedda, dove c’erano meno bambini… una zona più marginale insomma (parliamo di 50 metri al massimo).
Invece la cosa che più mi piaceva era che la casa della nonna stava proprio al centro della vanedda, in corrispondenza dell’arco con la scalinata che portava alla strada sottostante, Via Carlo Papa. Così, quando da via Carlo Papa si saliva la scalinata verso la vanedda, si vedeva subito la porta di casa di nonna, che era spesso aperta. Lei stava seduta a fianco della porta. Aveva una seggioletta di legno con la seduta di corda, e sopra ci teneva un bel cuscino di lana colorata fatto ai ferri. Nel tardo pomeriggio, con la sedia si trasferiva fuori, accanto alla porta, e prendeva il fresco, mentre faceva l’uncinetto.
[Piccolo inciso sul fatto che la nonna prendesse il fresco. La casa della nonna era il luogo più fresco di tutta Modica. Essendo infatti addossata al fianco della montagna, era scavata per un pezzetto nella roccia. E infatti, nell'atto di vendita, pare che la descrizione dell'immobile recitasse "piccolo dammuso in parte grotta". (Non pensate ai romantici dammusi di Pantelleria: questi sono semplici casette che appunto sono addossate alla roccia, un po' come quelle dei sassi di Matera). Comunque sia, tale conformazione fungeva da perfetto cappotto termico: la casa era calda d'inverno e fresca d'estate. Pertanto, quando la nonna diceva di sentire caldo, voleva dire che percepiva 26°C al massimo. Allora aspettava il tardo pomeriggio, prendeva la seggiolina e si metteva fuori].
In fondo alla vanedda c’era la putia, cioè la bottega di Don Carlo, un alimentari che aveva un po’ di tutto. Andavamo lì per la merenda: ci precipitavamo in massa nella sua bottega, facendo le gare di velocità per la strada, e poi compravamo il gelato, oppure mezzo panino con il prosciutto e provolone, o con la nutella. Don Carlo aveva il boccione di Nutella (a volte bianca e nera, altre solo nera), lo teneva sotto il bancone, e lo tirava fuori come fosse un tesoro. Ed era davvero un barattolo gigante, non è il ricordo che mi inganna (ma non tanto grande quanto quello di Moretti in Bianca).
Altre volte invece ci andavo da sola, a comprare un mazzo di tinniruma (le foglie del cavolo che si fanno bollite e sono buonissime), una bottiglia di acqua Fiuggi per la nonna o un etto di mortadella. Ripetevo la lista della spesa come un mantra per tutto il tragitto, stringendo in una mano i soldi che mi aveva dato la nonna prelevandoli dal borsellino che teneva sulla lavatrice. Mortadella-acqua-tinniruma-Mortadella-acqua-tinniruma-Mortadella-acqua-tinniruma. Poi, arrivata a due metri dalla bottega, mi distraevo un attimo e puntualmente mi dimenticavo tutto. E dovevo tornare indietro.