Durante la stagione il Teatro Dehon di Bologna è solito riservare una o più rappresentazioni all’opera di Carlo Goldoni, e, anche quest’anno, non manca un omaggio al grande commediografo veneziano con “La vedova scaltra”. Scritta nel 1748 rappresenta un mix, o, meglio ancora, una fase di passaggio, dalla tradizionale commedia dell’arte alla “commedia nova”, o di caratteri, non a caso sul palcoscenico interagiscono personaggi “reali” e maschere. La vedova Rosaura (Isabella Caserta), dopo un matrimonio d’interesse con un vecchio possidente che ha comportato le relative rinunce “amorose”, cerca ora di recuperare il tempo perduto lasciandosi corteggiare da una serie di spasimanti conosciuti ad uno dei tanti balli in maschera che illuminano le notti della Serenissima. I pretendenti sono quattro nobili: un italiano, un francese, un inglese ed uno spagnolo, che nel tentativo di procacciarsi i favori della bella vedova ricorreranno a tutte le astuzie del corteggiamento, com’era in uso a fine ‘700, ma nel contempo finiranno per incarnare tutti i vezzi ed i difetti delle rispettive nazioni di provenienza. Proprio l’incrocio tra i desideri dei quattro uomini e quelli della vedova rappresenta il fulcro della rappresentazione. La scenografia scarna, se non spartana (una scala foderata dei tessuti della gonna di Rosaura e 4 sedie), tende proprio a focalizzare l’attenzione su quello che è il leitmotiv della commedia, cioè lo studio dei caratteri dei protagonisti, senza fronzoli che possano distrarre l’attenzione o, peggio, far maturare un giudizio sbagliato su di loro. Salta facilmente agli occhi come i pretendenti siano la tronfia espressione di una nobiltà decadente e vuota di contenuti, tutta presa dalle convenzioni e dalle apparenze, senza alcuna sostanza e profondità, nascosta com’è sotto crinoline e parrucche, tutta volti incipriati e modi affettati, ma soprattutto ben lungi dal sospettare la tragica fine sotto la lama delle ghigliottine che la rivoluzione francese prossima a venire le farà fare.
Di contro, Rosaura rappresenta la donna indipendente, provata da una vita di rinunce che, finalmente libera, nella sua ingenua saggezza testimonia però un profondo bisogno d’amore, inteso però come ricerca di un sentimento profondo e sincero, fresco ed autentico, da mettere al centro della vita, in una sorta di soffio purificatore che anticipa l’avvento del Romanticismo. L’altro elemento cardine, quello che fa da trait d’union a tutto il costrutto è però Arlecchino, servo di locanda, che incarna a sua volta vizi e virtù dell’Italiano dell’epoca, e, ahinoi, anche del presente. Egli riesce nel contempo ad essere servo di 4 padroni e combina più danni della grandine nella sua opera di messo che reca ambasciate ricevendo risposte che poi confonde. Detto che cattura facilmente le simpatie del pubblico, alla fine appare evidente che egli finisca per lavorare sotto traccia per la bella Rosaura. Lo stesso stratagemma “teatrale” usato da Rosaura per arrivare alla scelta finale dell’uomo da sposare, cioè quello di presentarsi a ciascun pretendente mascherata, assumendo le sembianze di una donna del paese di provenienza del nobile di turno, per provarne fedeltà e veri sentimenti, è conferma ulteriore che lei cerca amore, non mondanità, non ricchezza, non posizione sociale, rappresentati rispettivamente dal francese, dall’inglese e dallo spagnolo. Rosaura vuole passione e affetto, condito, perché no, dalla sana gelosia che solo chi ama può nutrire. In definitiva, una rappresentazione gradevole che regala qualche spensierata risata, ma, come quasi sempre nella commedia nova, induce ad attimi di riflessione sulla vita e sulle manifestazioni di sentimenti e caratteri. Gli applausi convinti sulle note della “carola” di turno testimoniano il gradimento convinto del pubblico in sala.