di Renzo Zambello
Sempre più spesso mi capita in terapia di venire in contatto con “nuclei bui” della personalità del paziente che non hanno la carica rigenerante della nevrosi, né il freddo del nucleo psicotico. Sono zone amorfe che il paziente etichetta con un’unica parola: vergogna. Tutti i pazienti in cui ho trovato questi nuclei esprimono all’unisono questa gradevole sensazione: “provo vergogna”. Essi non sanno di cosa si vergognino, né da quando. Si sentono contaminati, da sempre.
In letteratura non c’è molto su questo tema e condivido quello che diceva Eugenio Gaburri, Medico Psicoanalista Didatta della SPI: “La questione delle aree di “indifferenziazione” della personalità pone molti problemi, clinici e teorici che sono stati scarsamente accennati da Freud “. Scrive ancora Gaburri: “Nella clinica, situazioni di “non contatto” che appaiono come aree cieche, di diniego, o, addirittura aree a cavallo tra biologico e psicologico, possono avere a che fare con l’indifferenziato. In questi casi non si ha tanto a che fare con “difese” dell’Io o con conflitti rimossi, ma, piuttosto, con aree la cui nascita psicologica non si è mai del tutto realizzata.” (Conferenze SPI 2009).
L’immagine “dell’ indifferenziato” che è così suggestiva, ha in sé tutta la forza dell’ambivalenza. E’ infatti distruttiva ma anche potenzialmente sede del nuovo e del rigenerato. Lo possiamo capire se pensiamo all’equivalente biologico, alle cellule indifferenziate, quelle che vengono chiamate “staminali”. Sono cellule, i medici lo sanno bene che possono degenerare in tumori ma che sono “l’humus”, la base dove ogni tessuto prende per crescere e rigenerarsi.
Qui, il biologico e lo psicologico si fondono assieme, nella continua lotta contro la tentazione all’autodistruzione e la vittoria della rigenerazione, della vita.
Forse Bion si era avvicinato più di ogni altro alla comprensione. Egli infatti ci ha spiegato di come la madre sia continuamente chiamata ad elaborare ciò che il figlio “vomita” come cattivo a ridarglielo come cibo buono. Mi ha sempre affascinato guardare queste madri che la natura ha fornito di una pazienza quasi inesauribile, raccogliere una, due, cento volte il giocattolo che il bambino butta e ridarglielo. Raccogliere il piatto che il figlio ha fatto volare, pulire e con un sorriso continuare a farlo mangiare. Nulla sembra poter interrompere questo ciclo virtuoso: il bambino butta fuori, agisce “cose cattive” e la madre gli ritorna “cibo buono”.
Pensate all’analogia con la funzione di “ madre terra” che prende le nostre “scorie” e le trasforma in cibo buono: piante, fiori, frutti.
Ma, il ciclo di elaborazione figlio-madre-figlio ad un certo punto si può interrompe, così per lo meno percepisce il bambino. Egli sente che qualcosa di “cattivo” gli è rimasto dentro, non è stato buttato fuori.
I clinici vedono in questo la genesi di alcuni comportamenti autistici ma, a mio avviso, senza entrare nel psichiatrico e possibile reperirlo nella genesi di alcune nevrosi strutturate come l’ipocondria. L’ipocondriaco è uno che teme, sente di essere ammalato, cioè di avere qualcosa dentro di sé che” non va bene”. Molto spesso la nevrosi ipocondriaca è una difesa dell’Io rispetto a qualcosa di più antico, profondo e temibile: l’indifferenziato.
Il terapeuta che si confronta con questi nuclei non ha nessun strumento verbale per aiutare il paziente ad elaborarli. Sono nuclei pre-verbali che richiedono solo un approccio empatico. Deve imparare dalle “madri”: farsi semplice e in armonia con la natura.
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