Il cielo scuro è diviso in sei quadrati dalle sbarre nere della cancellata. Dal cortile salgono alla cella gli odori grevi e fetidi della prigione, decomposti dal calore, l’eco indistinta di una vita indolente e opaca. Djadine striscia cautamente lungo il muro e, d’un colpo, con gesto rapido, afferra una mosca. Poi apre, una dopo l’altra, le dita, e quando essa vola via, egli leva lo sguardo a seguirla con occhi scuri ed assorti. La grossa porta, tutta ricoperta di ferro, s’apre e resta socchiusa; un piccolo soldato dell’esercito dello zar sguscia spaurito nella cella, va a destra e a sinistra quasi tentasse nascondersi; poi, sbuffando, si ferma, minaccia col pugno teso verso la porta. Poi, strizzando l’occhio, dice a bassa voce a Djadine: Ti saluto, paesano. Che caldo!… E’ molto che sei qui dentro? Djadine sorride e fa un cenno bonario col capo. L’altro, senza aspettare risposta, si dirige svelto alla finestra, prova le sbarre, vi si arrampica e, dopo aver guardato il cielo libero, salta agilmente a terra. Si stropiccia le mani, si guarda attorno e dice: Come dormiremo qui, se c’è un letto? Ce ne daranno un altro, risponde Djadine. Il soldato si ferma in un angolo, poi, guardando con attenzione Djadine, mormora misteriosamente: Mi pare d’averti visto in qualche altro posto. Non ci credi? Io mi chiamo Lukine Ivan. Sono del battaglione fluviale della riserva. E tu sei della seconda compagnia del reggimento di Yazvinsk: Fedor Djadine, è vero? Già… risponde Djadine. Ci siamo incontrati nel fossato, dietro il campo vicino alla fonderia, ricordi? Alle riunioni. Ho buona memoria, io. Tu hai anche detto una volta al nostro capo Vassili Ivanovitch che si scrivevano delle cose incomprensibili per i soldati e che tutto doveva essere chiaro e semplice… Mi ricordo! Parlava spedito come avesse imparato una lezione a memoria e nelle parole metteva una insinuante umiltà da persona colpevole. Djadine rifletteva. Non mi ricordo di te, io, disse. Il piccolo soldato si sedette sul letto. E’ naturale, disse, che tu abbia dimenticato! Eravamo in tanti! Oggi, però, son tutti dentro. Tutti? Disse Djadine e, sollevandosi, sorrise. Tutti senza eccezione., fece Lukine abbassandosi per prendere lo stivale. Sono stati arrestati tutti, fino all’ultimo uomo. E’ la nostra debolezza: i giovani non sanno tenere la lingua a freno; si denunciano l’un l’altro. Si fregano dalla paura. Sfilandosi lo stivale, toglieva la sporcizia dalle dita del piede, sbuffava e mormorava: il popolo… eccolo com’è il popolo!… Tu fai tutto per lui, ma lo comprende lui, il tuo eroismo? E poi tante altre cose… E questi capi? Metti, per esempio, Vassili Ivanovitch. Djadine alzò le spalle e disse duro: Sta’ zitto, paesano. Vassili Ivanovitch è un uomo fidato. E’ il nostro apostolo. Chi lo sa? Mormorò Lukine con intonazione provocatrice. Djadine lo fermò con un gesto della mano. Camminò a grandi passi per la cella. Lukine lo guardava con attenzione, battendo le palpebre e ascoltando quella voce bassa e sicura. Pochi erano gli apostoli. Solo dodici. Ma vinsero… Non lontano stavano pompando l’acqua: la pompa strideva. Il tempo passava più rapidamente. Oggi gli apostoli sono tanti, continuò Djadine. Sono i figli dello spirito del popolo. Sono i nostri figli, capisci? Nati di nascosto. Conoscono tutti i pensieri e tutti i desideri degli uomini… Perché? Perché il loro petto contiene il mio cuore, il tuo e mille altri cuori, e quando questi mille sono in uno solo, questo e un cuore d’apostolo. Djadine parlava stentatamente; si teneva la gola con una mano, se la stringeva fra le dita, tossiva affaticato, e con grande sforzo tirava fuori le parole. Il suo volto, scuro prima, divenne sanguigno. Continuò: Quel che viene dal popolo, dai suoi sforzi disperati, dai suoi patimenti, è invincibile! Sarà sempre così! Ed un giorno la spunteremo. Ma perché ti hanno arrestato? Chiese Lukine. E la sua faccia divenne ingenuamente furba. Che importa il motivo? Lukine non potè sostenere quello sguardo penetrante e abbassò gli occhi. Ma continuò ostinato e viscido: Da noi si diceva… S’interruppe. Poi riprese: Mentivano, probabilmente. Che dicevano? Chiese Djadine aspro, fermandosi dinanzi al soldato ed esaminandolo. Lukine si dimostrò inquieto; cominciò ad infilarsi lo stivale e, fermandosi ogni tanto, disse: In generale, da noi vi portavano sul palmo della mano. Si meravigliarono poi… che… Che?… Mah… Si disse che avevate rilasciato un prigioniero che era sotto vostra scorta e… altre simili stupidaggini. Djadine si levò; si passò una mano sulla fronte e, sorridendo, dichiarò con una punta di orgoglio: ‘ vero, l’ho rilasciato io. Lukine fece un salto sul letto, batté un piede per terra, agitò frenetico le braccia: E tu hai permesso che non si sparasse? E tu non hai sparato? Proprio così. Sei strano, disse tranquillamente Lukine. Bisogna temere solamente di peccare contro il popolo. Ma io ho la coscienza a posto! Disse Djadine camminando tranquillamente per la cella. E ricominciò a parlare, lento: Ho conosciuto uomini che mostrano la verità al mondo: ho capito che era la nostra verità, la mia, la tua, quella di tutti gli esseri viventi. Di uomini come quelli bisogna aver cura, e sostenere la loro fiamma aiutandoli con l’anima del popolo e non boicottarli.
a. C. AD ALESSANDRIA
Il venditore è giunto dal suo piccolo villaggio
presso il suburbio. E’ ancora impolverato dal viaggio.
Gomma! Incenso! Squisito olio! Coraggio!
Ecco, per i capelli, i profumi di maggio!
Così grida per via. Ma chi lo sente
nel tumulto di musiche, di parate, di gente?
Che è questa follia? Chiede, in quel labirinto
di popolo, intronato, urtato, spinto.
E uno lancia l’enorme bugia, l’annuncio finto
del palazzo: che in Grecia Antonio ha vinto.
-Costantino Kavafis-
VERITAS ODIUM PARIT
-Terenzio-