Quando leggi un romanzo e dopo qualche mese sei ancora lì a pensarci e ti senti felice di averlo letto, anche se quello non è il romanzo che dona la felicità, anche se quello anzi è il romanzo che più di tutti ti ha fatto assaporare qualcosa di così terribile da ringraziare Dio di essere quello che sei, di essere scivolato con la biglia dalla parte edulcorata di mondo, insomma, quando leggi una cosa del genere e senti la necessità di volerne riscrivere, questo – in termini umani – questo è un guadagno. Ciò di cui sto parlando è l’opera di Veronica Tomassini, Sangue di cane (Laurana). Ne ho già parlato qui in altri termini e in altri tempi. I romanzi però hanno una loro misura affascinante, i romanzi crescono con un ritmo grande e brutale, i romanzi si portano dentro qualcosa di cui gli uomini non hanno esperienza, è allora sbagliato pensare che essi non abbiano più nulla da dirci dopo averne scritto magari una recensione, o semplicemente dopo averli accantonati in uno spiraglio della biblioteca. Ciò di cui ha continuato a parlarmi Sangue di cane riguarda uno dei segreti più intimi e travisati della scrittura: la verità. Ho pensato a lungo che gli scrittori, anche i più celebrati, possono maneggiare una tecnica sopraffina e con essa scrivere capolavori di lunga durata e nel contempo non essere sinceri. Ma quelli che possiedono la sincerità sanno scrivere senza schermi, senza freddezza, esibendo il calore bagnato delle proprie viscere, quella sincerità li espone nudi al mondo e li rende il bersaglio preferito degli stolti. La ‘verità’ è questo. Allora ho pensato che in questi mesi è successo qualcosa intorno a Veronica, è successo che Sangue di cane è stato divorato dal mondo, è stato vivisezionato negli infiniti rivoli di cui si compone la rete. E questo perché Sangue di cane è un romanzo scritto con verità, un’opera senza filtri, enormemente coraggiosa, distante anni luce da quello che si legge oggi sotto le luci celesti degli abat-jour italiani. Resterà questo libro, ne sono sicuro. Perché, al di là dei suoi pregi di scrittura, leggendo i numerosi e spesso feroci commenti lasciati dai lettori, ho capito che attraverso Sangue di cane è traspirata l’ipocrisia di un pubblico indottrinato da un ventennio di tristi epigoni, un pubblico sconsolatamente disabituato alla verità. Le chiamano per questo “opere di rottura”, perché sono del tutto nuove, spiazzanti, scandalose. Perché mettono le mani nella cloaca dell’ipocrisia e perché non hanno paura di mostrarsi per quello che sono: fragili, dolenti, fiere.
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