Magazine Diario personale

La verità in tasca e l’arte del confronto. Sappiamo ancora dialogare?

Creato il 01 marzo 2012 da Autodafe

di Cristiano AbbadessaLa verità in tasca e l’arte del confronto. Sappiamo ancora dialogare?

C’è una cosa che spesso mi colpisce, e un po’ mi spaventa, nei commenti ai post che pubblico su questo blog e, più in generale, nelle reazioni che riscontro quando tento di affrontare tematiche delicate del mondo editoriale: le assolute certezze con cui molti, avendo la verità in tasca, esprimono giudizi trancianti e non esposti al contraddittorio. Non mi riferisco tanto ai commenti postati nel blog stesso, alcuni dei quali sono invece aperti e problematici, quanto a reazioni raccolte in altri ambiti della rete e persino nei contatti personali via email.
È accaduto anche con il mio ultimo intervento, in cui chiedevo di ragionare insieme su una scelta sofferta che abbiamo compiuto, di cui stiamo valutando benefici e danni, e che ponevo dichiaratamente nell’ambito delle decisioni emendabili. Pochi commenti diretti (interessanti, ma pochi davvero), qualche reazione sdegnata espressa a distanza, una buona dose di silenzio disinteressato. Mi sarei aspettato, e augurato, che si facesse vivo addirittura qualcuno degli autori (ce ne sono, e più di quanti si creda) che ci hanno inviato proposte chiaramente incompatibili con la linea editoriale e che, alla nostra inevitabile risposta motivata, hanno replicato con candore e cortesia che “be’, certo, se volete romanzi che parlino della realtà sociale capisco che il mio non fa al caso vostro”, come se quel che cerchiamo non fosse chiaramente scritto e ripetuto in ogni pagina del nostro sito. Li aspettavo non per sentire dei mea culpa inutili e fuori luogo, ma perché credo che talora il “provarci” possa avere qualche motivazione non peregrina; persino io, che pure mi ritengo “vittima” di questo lanciar proposte senza discernimento, posso immaginare alcune ragioni con qualche fondamento (ma è inutile che le esprima, perché già mi ragiono addosso e voglio almeno evitare di cantarla e suonarla facendomi una domanda e dandomi una risposta).
Non è questo, però, che mi ha maggiormente infastidito. Sono stati alcuni contatti, non pubblici, nei quali, di fronte all’espressione di un dissenso (questo sì pubblico, ma non sul blog) ho più o meno detto: “Ci siamo trovati di fronte un problema e abbiamo fatto una scelta per tentare di trovarvi una soluzione, però parliamone”. E, puntualmente, ci siamo sentiti replicare, con tono anche infastidito: “No, non parliamone”. Con, in chiusura, la motivazione che davvero mi preoccupa: “Voi avete fatto una scelta. Io non sono d’accordo. Per cui non c’è nulla di cui parlare”.
Se riprendiamo in mano il mio precedente intervento, questa posizione appare incomprensibile anche da un semplice punto di vista logico. Ho infatti parlato di una scelta fatta cento giorni fa, dopo che per qualche mese si erano poste le premesse, sperando di evitarne un’applicazione drastica ma vedendola inevitabilmente avvicinarsi. I dissensi e i consensi li abbiamo già raccolti all’epoca, abbiamo ragionato, valutato fra noi, e quindi riaperto un dibattito (in verità mai chiuso), non per fare un sondaggio e sentir esprimere giudizi ma per confrontarci su un problema oggettivo e sulle sue conseguenze, sulle soluzioni possibili e sulle conseguenze di queste soluzioni. Invece, la risposta che riceviamo è: a voi tocca fare le scelte, a noi il diritto di criticarle.
Questo tipo di comportamento può essere forse riconducibile a quella tendenza (vedi Le pecore e i leoni) che porta a dettare regole etiche, a scomunicare o benedire, ma sempre restando fuori, evitando di diventare concreti sostenitori di una scelta condivisa o portatori di un’ipotesi alternativa. E può essere un effetto di quel comportamento sociale che ogni tanto induce il popolo italiano a invaghirsi di politici decisionisti e cazzuti, salvo poi sputacchiarli e farli bersaglio di monetine quando il vento gira.
Temo però che, oltre a una precisa volontà che può essere funzionale a una posizione di comodo, vi sia anche una reale incapacità di confrontarsi e discutere. Perché se a un’offerta-richiesta di dialogo si risponde (o non si risponde affatto) in modo da troncare ogni possibile sviluppo, forse vuole anche dire che la sola idea di parlarne fatica ormai a trovare cittadinanza. Lo vedo nel mondo dell’editoria, dove, ho già scritto, circolano tesi precostituite e non scalfibili, spesso e volentieri costruite su luoghi comuni tutti da verificare (e fa specie, in un settore in cui a breve, secondo me, assisteremo a degli autentici stravolgimenti di ruoli, rapporti, ideazione, commercializzazione). Ma lo vedo anche in quasi tutti gli ambiti del sociale, dove ciascuno gira con la propria piccola verità in tasca e si esprime solo con un sì o con un no, applaudendo o fischiando, tifando pro o contro, al massimo ripetendo stanche litanie mandate a memoria, a maggior gloria delle proprie certezze rivelate.
Può darsi che questo tipo di semplificazione abbia le sue radici in quella trasformazione bipolare della politica che ci ha abituato a ragionare secondo lo schema “o di qua o di là” (almeno nelle intenzioni). Oppure può essere un effetto collaterale (o non collaterale) della grande democrazia della rete e dei social network, dove ci si esprime con un “mi piace, non mi piace” e dove tutti scolpiscono un parere su qualunque argomento, dal più generico al più specialistico, dal più rilevante al più futile, con l’ingenua convinzione di fare opinione senza in realtà neppure averne una propria (dove per opinione si intende qualcosa che non sia la semplice asserzione dogmatica, ma somigli a un ragionamento motivabile e sostenibile in un confronto dialettico).
Magari sono io fuori posto, cresciuto in un’epoca in cui la mediazione era il pane quotidiano di una politica fin troppo felpata (e che peraltro non rimpiango, perché poi nessuno veniva chiamato ad assumersi le proprie responsabilità). Di sicuro, mi fa una certa impressione veder trasformato ogni argomento di possibile dibattito e confronto in una sorta di eterno Dies irae in cui si riesce a esprimersi soltanto attraverso la pronuncia di granitici giudizi.


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