È ufficialmente l'anno dei voucher. Lo studio del Servizio Politiche Attive e Passive UIL «Voucher “buoni(?) lavoro” Questi ex sconosciuti» ci restituisce numeri e dati sbalorditivi. La diffusione del Lavoro Accessorio è arrivata a un punto critico, l'utilizzo dei voucher è in pieno boom.
Nel 2008 i voucher venduti erano stati 535.985. Oggi, anno 2015, 114.921.574. Sono numeri da capogiro. Rispetto al 2008, il numero di voucher staccati nel 2015 è salito di oltre 200 volte.
VOUCHER VENDUTI, SERIE STORICA
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
535.985
2.747.768
9.699.503
15.347.163
23.813.978
40.787.817
69.186.250
114.921.574

Per capire bene questa quantità, consideriamo che una persona lavora all'incirca 1760 ore l'anno e che dunque un'azienda di 30 persone può contare su 52.800 ore di lavoro in un anno solare. Bene, conti alla mano, nel 2008, con tutti i voucher venduti, si poteva dare lavoro per oltre dieci anni ad un'azienda di 30 persone. Nel 2015, quelle 30 persone sarebbero diventate 6.530. Circa tre volte il numero di dipendenti di Esselunga.
Come siamo arrivati a questo punto? Il lavoro tramite voucher nasce nel 2003, con la riforma della Legge Biagi, per contrastare il lavoro saltuario in nero e togliere terreno ad una certa parte di economia sommersa. Nel 2012, la stretta alle collaborazioni data dalla Riforma Fornero ha reso poi i voucher più competitivi. Pensati per dare un riconoscimento giuridico ai “lavoretti”, presto però i voucher sono rivelati un potenziale strumento di copertura per il lavoro nero. Non è difficile, infatti, comprare un pugno di voucher per coprirsi le spalle da eventuali visite ispettive, chiedendo (o imponendo) però al prestatore molte ore di lavoro in più.
Aggiungiamo questo dato: nel 2015, il volume di affari del “sommerso”, in Italia, ha raggiunto la cifra record di 206 miliardi di euro. Più o meno quanto il PIL dell'intera Repubblica Ceca.
Siamo di fronte ad un'esplosione di lavoro “pseudo-sommerso”? Le attività per le quali i voucher erano stati pensati, (giardinaggio, lavoro domestico, attività sportive) ne consumano solo il 15% mentre un impressionante 50% viene usato in settori (commercio, turismo e servizi) in cui il ricorso ad una quantità tale di lavoro accessorio è più difficile da spiegare. Nel 2008 in tutte le regioni italiane (20 su 20) il primo settore per diffusione di lavoro accessorio era l'agricoltura. Nel 2015, invece, è stato il commercio ad avere il primato, con 16 regioni su 20 – seguito dal turismo nelle restanti 4. Vediamo questo dato nel dettaglio.
Tralasciando, per comodità, i voucher comprati per "altre attività" (comunque ben 47 milioni), dove vengono utilizzati i buoni lavoro nel 2015?

Nella distribuzione geografica i voucher seguono il denaro. Sono infatti le regioni più ricche e con i più alti tassi di occupazione ad attirare il lavoro accessorio. Nel 2015 a Milano sono stati venduti 7,3 milioni di buoni lavoro e ad Enna circa 85mila. Nella provincia di Bologna (tasso di occupazione, 69,3%) i voucher venduti sono stati 3 milioni, mentre nella provincia "meno occupata", Caltanissetta (36,3%) solo 118 mila.

Se però prendiamo in considerazione la diffusione regionale dei voucher in rapporto al numero di abitanti, cioè la concentrazione di voucher, emergono alcune sorprese. La Campania crolla in fondo alla classifica (0,5 voucher per abitante), mentre il Trentino Alto Adige si rivela la regione con più voucher per abitante (4,54), seguita da Friuli Venezia Giulia (4,30), Valle d'Aosta (3,58), Marche (3,24) ed Emilia Romagna (3,22). Le prime tre, per coincidenza, sono regioni a statuto autonomo.

A livello angrafico, spiace notare come la classe d'età che pià di tutte viene retribuita con voucher è quella dei giovani under29, gli stessi che dovrebbe essere destinatari di Garanzia Giovani e (prioritariamente) del contratto di apprendistato.

Il lavoro accessorio non è di per sé un problema. Il problema è l'utilizzo che ne viene fatto. Allo stato attuale, non sembra che le restrizioni di legge (che avevamo già approfondito in questo articolo) possano contenere una diffusione quantomeno sospetta. Occorre riportare, quindi, per altre vie lo strumento al suo utilizzo originario, evitando che venga impiegato per scopi poco trasparenti e ancora meno giustificabili.
Gina Bondi, Simone Caroli, Andrea Torti