Non avendo letto il libro, sono nell’invidiabile posizione di non avere opinioni preconcette, sempre deleterie in questi casi. Il film racconta la vita di Barney Panovsky (Paul Giamatti) attraverso una doppia linea narrativa che alterna flashback dei momenti significativi del passato di Barney (la sua “versione”, cioè i suoi ricordi) a momenti della vecchiaia di Barney, fino alla sua morte. La tensione narrativa è sostenuta da due eventi: il mistero riguardo la morte dell’amico Boogie, di cui Barney è stato l’unico presunto omicida e dalla storia d’amore con Miriam (Rosamunde Pike), che scopriamo presto essere finita in un divorzio che Barney non ha accettato e che guida l’interesse dello spettatore attraverso i flashback, visto l’inizio così inusuale ed il trasporto iniziale di Barney.
Prima di sapere quasi tutto, già sappiamo che Barney è un vecchio rancoroso, uomo solo, forse omicida, che ha rovinato il proprio matrimonio. La sfida del film è quella dell’empatia nei confronti di un personaggio tutto sommato negativo (o non cinematograficamente positivo) che fa sempre di tutto per risultare riprovevole. Sfida vinta? In parte.
Difficile fare qualche riflessione senza spoilerare, perché Barney Panovsky è l’ennesimo ebreo letterario cinico, ironico, talentuoso e autodistruttivo, finchè il destino, dopo averlo condannato ad una vita di rimorsi e ricordi dolorosi, lo beffa crudelmente, o forse lo grazia, chissà (ma non vado oltre): solo allora il senso della vita di Barney può diventare significativo anche per chi guarda. Quello che accade a Barney (nel presente) potrebbe far dubitare dell’autenticità dei ricordi ed aprire qualche scenario interessante, ma questo aspetto non viene preso in considerazione nel film, almeno non esplicitamente.
Barney Panovsky ha le fattezze di un Paul Giamatti che finalmente trova il ruolo della vita, supportato anche da un cast all-star, da Dustin Hoffman a Bruce Greenwood. Il livello delle interpretazioni è il punto forte del film, che offre anche molti spunti di riflessione, non risolvendo mai tra commedia e dramma (e per questo molto realistico), ma forse in cui pesa troppo la componente giudaica che, in generale, è un luogo comune di cui potremmo fare a meno. E’ come se ogni personaggio ebreo della letteratura dovesse necessariamente essere estremo nel bene come nel male, contenere per forza sia il meglio che il peggio del genere umano per il fatto stesso di essere ebrei, vista l’insistenza sugli elementi culturali ebraici. In America, è forse scontato il peso specifico della cultura ebraica nella visione, nella critica, e nel racconto della vita in questo genere di opere ambiziose e tragicomiche, per cui è solo il fatto di essere un osservatore esterno che me lo fa sembrare innaturale. Fatto sta che fino al momento in cui la vita di Barney svolta drammaticamente, non ho provato alcun trasporto nei confronti della storia e di un personaggio fin troppo umano per essere amato incondizionatamente come un Forrest Gump, nonostante il film sia comunque ineccepibile dal punto di vista tecnico ed artistico.
La versione di Barney è il massimo che il cinema americano mainstream può permettersi, mettendo insieme un libro di successo, attori a caccia di premi e calcoli di guadagno sicuro. American Life di Sam Mendes è dieci volte più vero e profondo, per esempio. Certo il fatto che ci siano voluti più di dieci anni per trovare lo script giusto e che il regista non sia di certo un nome di richiamo (Richard J. Lewis ha diretto molto in tv, nulla al cinema) pesano sul risultato complessivo, forse si poteva fare qualcosa in più, visto il soggetto. Ogni anno esce un film che – in un modo o nell’altro – ha questo respiro esistenziale e la pretesa di raccontare il senso della vita agli Americani. Magari con loro funziona, con noi ci vuole anche qualcos’altro che non sono sicuro che questo film abbia.
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