Magazine Cultura
Non ho letto il libro a suo tempo, nonostante i molti consigli che la mia amica canadese con entusiasmo mi inviava tramite mail, ma guardando in una sera d’estate dove la voglia di fare qualcosa era minima se non del tutto inesistente, il dvd de “La versione di Barney” ammetto di essere stato cocciuto e presuntuoso nel rifiutare a priori la lettura del testo di Mordecai Richler a cui presto porrò rimedio.
Il film mi è molto piaciuto per la leggerezza e la scorrevolezza che ha nel ripercorrere le vicissitudini che attraversano la vita di Barney Panofsky (interpretato magistralmente da Paul Giamatti), un produttore televisivo ebreo che ha fatto fortuna e vive a Montreal dove il suo unico hobby sembra essere collezionare mogli e bottiglie di whisky oltre che fumare in quantità industriali sigari “Montecristo” (interessante la scena in cui viene spiegato perché tale qualità di sigaro è denominata Montecristo). Nel corso del film apprendiamo che Barney è figlio (affettuoso) di un poliziotto in pensione col vizio del sesso (quando si dice tali padri, tali figli!), che da tempo è incalzato dalle ambizioni (addirittura ha scritto un libro) e dalle calunnie di un detective convinto che Barney sia coinvolto in prima persona nella scomparsa del suo miglior amico Boogie (uno scrittore dotato e molto licenzioso, dedito all’assunzione di qualsiasi droga gli capiti a tiro). In questo contesto Barney decide di dare la sua versione dei fatti e così in una serie di flashback si ripercorre la sua intera esistenza fatta di alti e bassi con la sua educazione sentimentale e la sua vita sempre al limite e spesso fuori misura. Si parte dall’Italia degli anni sessanta e più precisamente a Roma (non a Varese o Monza) per giungere il Canada e Montreal. Tra partite di hockey guardate nei fumosi bar dove Barney si accompagna a whisky e “Montecristo” e donne sciupate come fiori, Barney rievoca il suo primo matrimonio (a Roma) con una pittrice esistenzialista suicida, riesamina il suo secondo matrimonio con una ricca ereditiera ebrea (stupende tutte le scene del matrimonio e della festa che ne segue con tutti i riti e gli assilli dell’educazione ebraica) e ninfomane per giungere al suo terzo matrimonio e a tutti gli errori fatti con la sua terza e amatissima consorte.
Penso che sia sempre difficile trasporre un testo letterario in arte cinematografica, purtroppo non avendo letto il libro, devo considerare le parole della critica come veritiere quando affermano che la versione cinematografica de “La versione di Barney” è poca cosa rispetto al libro. Rimane comunque un film gentile, in cui il regista Richard J. Lewis preferisce dar spazio all’intreccio della trama più che ai personaggi raccontati in modo incommensurabile nel libro e nel film trascurati. Smarcandosi dalla fedeltà e appagato dall’esaltazione del tradimento, Lewis preferisce una ‘versione’ conciliata e conciliante di Barney, che manca l’identità ebraica e l’umorismo yiddish di Richler. Così facendo però, Barney finisce per apparire una figura da melodramma perdendo la peculiarità di un buontempone disprezzato da rabbini e gentili, sempre pronto a sacrificare verità e relazioni per una buona battuta. Una battuta che veicola sempre sentimenti profondi e sfoga un’energia nervosa a lungo trattenuta.
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