Il Muso bloccò il paese per i successivi quattro anni finché, vuoi per reale bisogno vuoi per la noia insopportabile di quel silenzio prudente che faceva da sostrato a ogni momento della vita sociale e persino privata dei cittadini di Sicherheit, non venne l’idea di vietare severamente ogni discussione su eventi che non avessero avuto luogo nell’anno corrente. Quella che altrove sarebbe parsa una richiesta inaccettabile quanto pericolosa, fu invece accolta sull’isola con gioia dalla popolazione – che da un giorno all’altro ricominciò a parlare contenta del tempo e della partita del giorno prima. In pochi anni, l’editto – o forse l’innominabile ricordo del Grande Stallo – cambiarono volto all’isola e la dittatura del “qui e ora” inaugurò una nuova era di cambiamenti rapidissimi e incontrollabili. Leggi e ordinanze di qualsiasi sorta nascevano e morivano nel giro di pochi giorni, figli di sondaggi altrettanto celeri e di singoli accadimenti che dettavano l’agenda politica come una torre di controllo che cercasse di far atterrare un pilota improvvisato.
Nel 1997 non cadde una singola goccia di pioggia su Sicherheit. Altrove il fatto si sarebbe meritato l’epiteto di eccezionale siccità (dato anche il regolare metabolismo del cielo sopra l’isola) nel senso insomma proprio e letterale di un’eccezione, capace giusto di mandare in malora gli agricoltori e di mettere in scacco i metereopatici. Su Sicherheit, il secco testardo venne invece accolto come un dato assoluto – come se qualcuno avesse spostato l’isola latitudinalmente. La reazione fu al solito urgente e categorica: furono proibite le zuppe, le persone sposate dovevano far la doccia insieme e gli impianti di desalinizzazione rovinarono la costa. Nessuno sembrava ricordare le piogge torrenziali che l’anno prima avevano fatto gonfiare come uno stomaco la falda acquifera che si spalmava sotto alla capitale. Quando finalmente il cielo si sbloccò, nel primo pomeriggio del 12 febbraio 1998, cominciarono i problemi. Che, va detto, ingigantirono con una velocità non attribuibile interamente all’incoscienza di Sicherheit.
A qualche decina di chilometri dalla casa di Kobyan, oltre un nugolo di cantieri e viadotti, si distingue tra palazzi anneriti dalle fabbriche di liquirizia, il palazzetto dello sport intitolato a Mari Fallum – l’unico atleta dell’isola capace di guadagnarsi un’inquadratura a tutto schermo in mondovisione durante le Olimpiadi del 1970 – capace di ospitare circa ventimila persone e location ideale (forse l’unica su tutto il territorio di Sichereheit) per gli appuntamenti musicali, politici e religiosi più importanti. La sera del 13 febbraio 1998 i seggiolini rossi del palazzetto sarebbero stati messi alla prova dal vasto ed eterogeneo pubblico di Sovyana – la popstar che dominava le classifiche da alcuni mesi e che per pochi altri sarebbe rimasta nella memoria di migliaia di persone. Alla fine degli anni 90 infatti, gli effetti dell’articolo 88 sull’industria discografica si facevano sentire: il ciclo di ogni artista non poteva estendersi oltre i 12 mesi (che scadevano il 16 di aprile in ricordo, ovviamente, di nulla) previsti dalla legge, e il termine obbligava le etichette discografiche a cercare materiale e visi capaci di emozionare, appassionare e quindi stancare l’audience nei tempi previsti. Sovyana era a tal proposito forse l’esperimento più riuscito del decennio: nessuno in dieci mesi era riuscito a mettere in fila tre sold-out al palazzetto Fallum. Un dato ancora più impressionante se si pensa che la scintilla del suo successo fu una clamorosa gaffe durante una delle sue prime apparizioni televisive: incalzata da una giornalista in cerca di scoop, Sovyana – di madre russa e nazionalizzata solo pochi anni prima – si limitava a ripetere il copione imposto dai discografici, un prevedibile elenco di posizioni innocue e vitaliste. Caso vuole però che la padronanza ancora limitata della lingua fece cadere in drammatico errore Sovyana circa la sua visione del problema della caccia ai caprioli che popolavano l’entroterra dell’isola. Uno scorretto uso dei pronomi fece del suo proclama generalista in difesa dei suddetti erbivori una sorta di inno allo sterminio degli stessi. La giornalista incredula insistette e trovò quello che non si aspettava, ovvero una conferma – che Sovyana diede ragionando tra sé e sé e ricordando la sua infanzia a Liekigrad, dove la caccia è cosa buona e giusta. La disperazione del suo agente e della sua etichetta discografica durò poco: nemmeno due giorni dopo la popolazione dell’isola, che segretamente non ne poteva più di dover rinunciare a tutta una serie di tradizioni alimentari che comprendevano il capriolo, incoronò Sovyana regina delle classifiche e della sincerità. Da cantante zuccherina, burrosa e conciliante, l’immagine della giovane popstar virò verso soluzioni vagamente militaresche e su un look severo e mascolino – mentre i successivi cinque singoli verterono principalmente sulla giustezza di ogni prevaricazione nei confronti del mondo animale, definito nelle sue canzoni “l’amico di cui non ti puoi fidare”. Alle sei del pomeriggio del 13 febbraio 1998 la superstrada che collegava la capitale al Palazzetto era una lunga e immobile colonna di lamiere e finestrini appannati, mentre il cielo tornava a farsi umido dopo un anno di fiacca. L’aeroporto della Capitale, di recente costruzione e di fragili fondamenta, sorgeva a nemmeno cinque km dal terzo piano grigio canguro di Kobyan Malve e a dieci dal palazzetto Fallum. Anche nelle giornate più limpide però, la vicinanza non fruttava alcunché di suggestivo alle vedute dal piccolo balcone dell’appartamento – ma solo un rombo capace di scuotere la tazza di caffè americano di Kobyan, altrimenti escluso da fastidi aeroportuali poiché costantemente incuffiato. A dirigere il timido traffico aereo che interessava l’isola era preposto il Comandante Petrovic, vedovo e avido consumatore di ravioli monoporzione. Dalla prematura scomparsa della moglie Mihaila aveva perso ogni interesse nei confronti di qualsivoglia accadimento, limitandosi a mettere in ordine il cielo sopra di lui. La sua dedizione alla torre di controllo era dunque ciò che per difetto gli rimaneva, e gli scioperi frequenti e partecipati gli scivolavano addosso come il bagnoschiuma primo prezzo che tentava di profumarlo nei suoi meccanici riti lavatori. Caso – inteso come il multiforme e cinico mostro che ci fa sbagliare i destinatari dei messaggini più delicati – volle che proprio il 12 febbraio, mentre i dinosauri si gonfiavano e il cielo tornava a scuotersi sopra Sichereit e l’autostrada si bloccava come un adolescente impacciato di fronte al popolo temporaneo e appassionato di Sovjana, caso volle che proprio quel giorno il personale della torre di controllo entrasse in agitazione – ovvero smettesse di agitarsi e incrociasse le braccia nella hall dell’aeroporto.
Alle sei e trenta del 12 febbraio la pioggia tornò come una regina sull’isola di Sicherheit. Lo stupore di un paese che si credeva ormai consegnato per l’eternità al cielo blu e alla terra secca fu secondo solo al panico di chiunque stesse conducendo un veicolo a motore, a prima vista dimentico delle più elementari regole di guida sul bagnato. Bastarono poche decine di minuti per immobilizzare la capitale, ormai totalmente sprovvista di buon senso e di tombini, giudicati inutili dal governo in assenza di precipitazioni. Liberi dagli argini rimossi pochi mesi prima per le nuove direttive sul paesaggio di Sicherheit (che si sentiva ormai provincia desertica e stava perciò drasticamente riadattando architetture e infrastrutture) torrenti e ruscelli si gonfiarono minacciosi. Nel frattempo i dinosauri buttati nello scarico dal deluso Kobyan avevano raggiunto scala 1 a 1 e ormai saturi erano capaci di bloccare il regolare e ora quanto mai abbondante flusso idrico sotterraneo. Fu per la precisione uno stegosauro il responsabile dell’ingorgo fognario che ebbe luogo appena trenta metri sotto all’ingorgo autostradale dedicato alla bella e schietta Sovjana. L’acqua, che tanto merita aveva avuto nel gonfiare lo stegosauro rosa, ora veniva impedita nel suo regolare flusso e tornava quindi impetuosa da dove era venuta, ovvero verso l’aeroporto a est e verso la casa di Kobyan e la periferia della capitale a Ovest.Fu il flusso orientale quello più catastrofico: l’aeroporto, già piegato dallo sciopero e dal temporale impietoso, venne attaccato anche dal basso - lasciandosi invadere dall’acqua e dai liquami respinti dallo stegosauro. Il Comandante Petrovic, resosi conto di non avere nessuno attorno da comandare, si lanciò verso la radio col fermo e malaugurato intento di dirottare il Boeing da Lisbona in avvicinamento sull’adiacente superstrada, riservandosi di aggiornare poco dopo la polizia stradale per farle bloccare il viadotto per tempo. Ignaro di chi fosse Sovjana, e così del suo concerto e ingorgo dedicatole, diede le coordinate per l’atterraggio di emergenza su strada a Felipe Orteza – mediocre pilota convinto dalla madre hostess a intraprendere la strada della cloche. Un attimo dopo spedì un telex urgente al comando delle volanti di Sicherheit, che in stampatello ordinava di bloccare e sgomberare il tratto d’asfalto interessato in meno di venti minuti. Quindi si sedette, lieto di aver condiviso con altri le responsabilità circa possibili vittime.
Il comando della polizia stradale, in gran parte occupato a inventare grondaie di fortuna e a coprire la nuovissima flotta cabrio nel parcheggio, tentò più o meno incessantemente di richiamare il Petrovic. Quest’ultimo, per non rischiare oltre e per sfuggire ai telefoni della torre di controllo che tentavano di farlo rinsavire, decise di unirsi allo sciopero e si confuse nella folla in agitazione nella hall – che nel frattempo si era trasferita al piano alto reparto riviste internazionali per sfuggire all’acqua che dominava l’ingresso dell’aeroporto.
Il bilancio fu durissimo. Morirono tutti e chi non morì lo fece per testardaggine. Complice l’oscurità, il velivolo scambiò le luci di posizione delle macchine sempre accese per una pista d’atterraggio ipertrofica. Solo a poche centinaia di metri dal suolo, Felipe Orteza si accorse che si trattava di una banale coda, di quelle in cui incappava con la madre all’uscita dai centri commerciali il sabato pomeriggio, e decise che non era il caso di fare l’eroe. Tentò quindi un atterraggio regolare, pur su fondo di lamiere non regolamentare. Sovjana suonò lo stesso, davanti a un palazzetto mezzo vuoto – e fu l’inizio del suo fisiologico declino. Il fato, inteso come quel domino di piatti lavati e mal accatastati che rovina sul servizio di bicchieri nuovi, era un colpevole troppo evanescente per i titoli dei quotidiani e i pugni stretti dei parenti delle vittime. Altresì, mettere in discussione la legge che aveva lasciato l’acqua libera di fare disastri non avrebbe fatto resuscitare alcuno, se non forse la cerebralità stantia e tardiva dei politici di un tempo. Si cercò quindi un capro più comodo, concreto, lampante.Il 16 febbraio del 1998 l’isola di Sicherheit vietò gli aeroplani. Li bollò come macchine di morte, mostri antichi destinati a cadere in virtù di un peso comunque superiore a qualsiasi legge fisica nota all’uomo della strada, aquile di lamiera e malaugurio incapaci di orientarsi con qualche goccia di pioggia. L’aeroporto fu chiuso e il personale non ebbe più di che scioperare. Nelle scuole e nei circoli presero piede cineforum dedicati alla effettivamente vasta produzione di film aerocatastrofici. Con successo insperato, in pochi mesi l’aereo sembrò a tutti un errore imperdonabile del progresso – pesante, cieco e assassino. Ciò detto, la vita commerciale ed economica dell’isola non poteva fare a meno dei contatti col continente, e anche al più integralista dei legislatori era chiaro che il traffico navale non sarebbe bastato a salvare la nazione dall’isolamento. Fu così che cominciò la vertiginosa ascesa dell’elicottero sull’isola di Sicherheit.