L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Prologo.
Lago George, colonia di New York, 8 settembre 1755.
I raggi di sole incalzavano il drappello, luce di sangue filtrava nel bosco.
L'uomo sulla barella strinse i denti, il fianco gli bruciava. Guardò in basso, gocce scarlatte stillavano dalla ferita.
Hendrick era morto e con lui molti guerrieri. Rivide il vecchio capo bloccato sotto la mole del cavallo, i Caughnawaga che si avventavano su di lui.
Gli indiani non combattevano mai a cavallo ma Hendrick non poteva più correre né saltare. Avevano dovuto issarlo sull'arcione.
Quanti anni aveva? Gesù santo, aveva incontrato la regina Anna. Era Noè, Matusalemme.
Era morto combattendo il nemico. Una fin nobile, persino invidiabile, se solo si fosse trovato il cadavere per dargli una sepoltura cristiana.
William Johnson lasciava andare i pensieri, un volare di rondini mentre i portatori marciavano lungo il sentiero. Non voleva chiudere gli occhi, il dolore lo aiutava a stare sveglio. Pensò a John, il suo primogenito, ancora troppo giovane per la guerra.
Suo figlio avrebbe ereditato la pace.»
«La notizia mi giunse improvvisa a Iglau, dov’era di stanza il mio Reggimento. Non ignoravo la gravità del suo male ma in quei giorni, rientrato da una licenza, un ufficiale aveva riferito che a Vienna correva voce di un quasi suo miracoloso miglioramento dovuto alle cure del dottor Malfatti. Anch’io, cedendo a un troppo facile ottimismo, avevo voluto crederlo per godere più liberamente le feste del Carnevale, che consentivano a noi ragazzi di brillare nella gaia società di provincia.
Quella sera, in attesa di indossare la bianca uniforme di gala, mentre sdraiato sulla branda stavo scambiando col mio compagno di stanza commenti e confidenze sulle nostre avventure, fui convocato dal capitano: in piedi dietro il tavolo, fissandomi con occhi chiari e freddi, gravemente mi disse:
- Ho il triste compito di annunciarle che il nostro grande Beethoven, suo zio, è morto.»
«Non c’era nulla di insolito, in apparenza, nel ritorno di zio Ezio alla grande casa nella quale abitiamo e dove, nella stalla del terzo cortile, c’era abbastanza spazio per contenere cavallo e carro. Zio Ezio, detto lo Stinco per via della gamba sinistra rigida (se l’era rotta da bambino e non si era più aggiustata), girava per i paesi e le cascine nei dintorni di Milano per vendere biancheria di ogni genere: calzini, magliette da sopra e da sotto, mutande e tanta altra roba, soprattutto per bambini. – In tempo di guerra - diceva – la gente non è disposta a spendere una lira per coprirsi, ma per i bambini è un’altra cosa.
Così Ezio caricava il carretto e appena terminato il coprifuoco usciva con il suo vecchio cavallo, per andare in posti che sembrava conoscere solo lui. Dormiva fuori casa per tre notti, e due giorni li passava a Milano per rifornire il carretto. Per comprare la biancheria ci voleva la tessera annonaria, ma zio Ezio riusciva a procurarsela al mercato nero, e sempre nel mercato nero investiva il ricavato delle sue vendite. Infatti la gente non aveva soldi e nelle campagne pagava con uova, polli, conigli, salumi, farina. Più che una vendita si trattava di un baratto, di uno scambio.
Eravamo alla fine di febbraio e il rientro di zio Ezio mi sembrò del tutto normale, ma poi mi accorsi che, cosa davvero insolita, subito dopo il suo arrivo alcuni amici si erano riuniti nella bottega del falegname, e che lo zio si era affrettato a raggiungerli, dopo aver chiuso la stalla e sistemato il cavallo con un po’ di fieno, senza neppure avere scaricato dal carro la roba da mangiare (quella che, di solito, portava in casa, suddividendola secondo i tipi di prodotto e le destinazioni: zio Ezio aveva i suoi clienti, in genere gente ricca che poteva permettersi di non badare ai prezzi che lui chiedeva).»
«All'epoca della mia infanzia due sopravvissute all'Olocausto abitavano in un garage al numero 29 di November Street, nel quartiere di Old Katamon a Gerusalemme. Ogni volta che passavamo davanti alla casa delle due vecchie signore tiravamo sassi contro la porta di ferro.»
«Possedevo un’automobile: una sera da un luogo di villeggiatura accompagnai certa gente alla stazione della città più vicina. Il treno era in ritardo, loro dicevano: “Vattene pure, si fa buio, fino a casa hai forse cento chilometri, ecc.”. Ma io ho preferito aspettare, per andarmene poi traverso la notte piena, quando il creatosi rifà semplice ed eterno. Partita la gente uscii dalla stazione e ripresi in fretta il mio posto al volante. In breve ero fuori delle case, via per il bel viale diritto, a fari accesi. Ma non mi sentii felice. Era una notte avvizzita. Il nero che copriva confusamente il cielo era pieno di strappi ove tremava qualche stella piccola, da quel nero colava per l’aria un impuro grigiore. Andando, non sentivo dormire la terra, come nelle notti vere. Anche l’aria dei prati respirava a stento.»
«Il tintinnio dei vetri è sommesso, imprevedibile, spietato.
La sirena d’allarme ulula per le strade e tanti confetti neri piovono dal cielo.
Mari è sola.
Sola con due bambini piccoli che la guardano attoniti.
La signora De Marchi, la mamma dei bambini, non c’è. È andata a far compere per Natale; beata lei che ancora può permetterselo.
– Ti lascio una mezz’oretta. – ha detto, mentre s’infilava un impeccabile cappotto color cammello coi risvolti e il collo di pelliccia.
È passata più di un’ora e ancora non si è fatta viva.
Il più grande dei due comincia a piangere, emettendo una specie di mi acuto che fa da controcanto a quello della sirena.
Mari vorrebbe urlargli Piantala!, ma sarebbe inutile e stupido: la paura fa venire voglia di piangere, piacerebbe anche a lei.
Il tremolio dei vetri aumenta d’intensità: stanno arrivando.
Boom!
Il boato è in lontananza, ma i muri vibrano, ondeggiano, tutto sembra sconvolgersi.
– Fuggiamo! – dice ai bambini e prendendoli per mano corre alla porta.
Sul pianerottolo incontra altri come loro che si muovono verso lo scantinato, come un’onda obliqua e torbida; gente che scende le scale in un silenzio paradossale, rotto solo dallo scalpiccio frettoloso dei piedi sui gradini e dall’ansimare angosciato dei più anziani.
Proprio mentre stanno per entrare negli scantinati del palazzo arriva la signora De Marchi con l’impeccabile cappotto sbottonato e l’aria sconvolta.
– Dio ti ringrazio, siete scesi! – e bacia e abbraccia i figli.
Liberatasi della responsabilità dei bambini, l’ansia di Mari è rivolta verso casa.
– Devo andare a casa! – grida e già è con un piede sulle scale, quando la signora De Marchi la ferma
– Non puoi andare fuori!
– Perché? – fa appena in tempo a chiedere stupidamente, che si scatena l’inferno.
BOOOOOM!
Il boato fa tremare le mura e oscillare le lampadine appese al soffitto. Tutti restano immobili, quasi senza respirare, incrostati nella loro stessa paura, temendo che un movimento brusco o un lamento possano innescare chissà quale reazione.
Ancora rombi d’aerei, a decine.»
«PROLOGO
Greve in Chianti, novembre 1914 Colline galleggiano come isole in un mare grigio, imprigionate dalla foschia che ristagna tra le valli silenziose. Corvi e gazze ladre si muovono rapidi tra i rami degli alberi, si tuffano sui campi, arati da poco. Nelle vigne, tralci dai rami contorti si tendono contro il cielo; foglie d’oro e ruggine si accartocciano e cadono a terra. Folate improvvise le trascinano via, le affastellano lungo i solchi della strada. È un autunno, questo, che ha il volto dell’inverno. Impietoso, freddo, morde la carne e riempie l’aria di odore di camino e legna bruciata. Il chiarore dell’alba non riesce a spezzare la coltre di nubi che gravita su quella collina poco distante da Greve. Le nuvole sono così basse e dense che si potrebbe toccarle, quasi affondarci dentro. Neanche il vento che soffia radente e spazza la stradina di ciottoli riesce a spostarle.»
«La fiamma della candela e la sua immagine riflessa nello specchio si contorsero e si raddrizzarono quando entrò nell'ingresso e di nuovo quando chiuse la porta. Si tolse il cappello, avanzò lentamente facendo scricchiolare il pavimento di legno sotto gli stivali e rimase in piedi, vestito di nero, davanti allo specchio scuro nel quale i pallidi gigli si protendevano dall'esile vaso di cristallo. Nel freddo corridoio alle sue spalle, alle pareti rivestite di legno erano appesi i ritratti, incorniciati sottovetro e fiocamente illuminati, di alcuni avi che conosceva solo vagamente. Abbassò lo sguardo sul mozzicone di una candela gocciolante, lasciò l'impronta del pollice nella cera tiepida colata sul ripiano di quercia e guardò quel viso smunto affondato tra le pieghe del raso funebre, i baffi ingialliti e le palpebre sottili come carta. No, non era sonno. Non era affatto sonno. »