Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perchè alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perchè altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
Lo staff della Stamberga
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«Se dovessi scrivere la mia storia, prenderei come punto di riferimento il rapporto con il cibo e le bevande, che da tanti decenni continuano a carburare questa mia carcassa, con sempre rinnovata soddisfazione poetica.Portrait, di Joyce Lussu - Polyfilo
L'appetito permanente dell'infanzia e dell'adolescenza (eravamo poveri e gli alimenti della famiglia erano spartani) e la gioia meravigliosa della sazietà; l'episodio indimenticabile dei miei undici anni, quando una signora inglese mi portò in una pasticceria di via Tornabuoni a Firenze, e, di fronte a quello schieramento variopinto di dolciumi, mi sentii dire per la prima volta "prendi tutto quello che vuoi" e fu come se mi avesse detto "il mondo è tuo"; gli ottocento grammi di spaghetti che dividevo con mio fratello, per rifarci delle porzioni famigliari che ci erano sempre sembrate scarse, quando eravamo andati a Macerata a dare gli esami da esterni, io ginnasiali e lui liceali; i primi soldi guadagnati in Svizzera, subito investiti in piatti sognati a lungo invano, come la fonduta al vino bianco; le manciate di fragole selvatiche e di funghi dorati che Emilio mi versava in grembo assieme alle genziane e ai rododendri delle nostre gite in montagna...»
««Dio sta arrivando… Fate finta di lavorare!»A volte ritorno, di John Niven - Daniele
Cosí recita l’adesivo sbrindellato appiccicato allo schedario accanto al refrigeratore dell’acqua. Ma oggi c’è poco da ridere: Dio sta arrivando sul serio e la gente ce la mette davvero tutta per far finta di lavorare. Raffaello e Michele sono lí impalati accanto alla boccia gorgogliante dell’acqua con un fascio di scartoffie in mano (caro vecchio trucco da impiegati: come far sembrare affaccendato un fancazzista cronico) e la conversazione – invece della chiacchiera rilassata che i due angeli hanno sciorinato in quel punto esatto per tutta la settimana – è arrancante, frettolosa e pronunciata a mezza bocca, quasi sottovoce, accompagnata da continue occhiate nervose verso il corridoio principale.– Quand’è che torna il vecchio? – chiede Raffaello.– Da un momento all’altro. Tarda mattinata, secondo Jeannie, – risponde Michele senza nemmeno alzare lo sguardo. È concentrato sul refrigeratore dell’acqua: tira la levetta con forza e una grossa bolla risale il recipiente di cristallo.– Porca miseria. Credi che sarà incazzato?– Incazzato? – Michele ci pensa su, e intanto tiene d’occhio l’ufficio principale, sorseggiando l’acqua.L’ufficio principale in paradiso è uguale a qualsiasi altro ufficio open space: cubicoli, scrivanie con le vaschette straripanti di fogli, telefoni, cestini, fotocopiatrici e scaffali carichi di cartellette e fascicoli. Ma c’è anche qualche differenza.In paradiso, ovviamente, a illuminare l’ufficio non ci sono tubi fluorescenti: al contrario, tutto è soffuso, rischiarato, inondato (mettetela come vi pare) di pura luce celestiale, la luce nuova di zecca di una tersa mattinata di maggio. L’atmosfera lavorativa è in genere felice, concentrata, entusiasta (anche se oggi, per ovvi motivi, c’è una corrente sotterranea di snervante attesa) perché nell’ufficio principale del paradiso, naturalmente, è sempre venerdì pomeriggio. Altra piccola differenza: l’alveare di scrivanie e cubicoli si estende a perdita d’occhio, appiattendosi fino all’orizzonte, ed è circondato da batuffoli vaporosi di nuvole. Forse qualcuno resterà sorpreso venendo a sapere che in paradiso si lavora, e invece è stata una delle trovate più azzeccate di Dio. (E a Dio capita spesso di averne). – La gente ama lavorare, – ha detto a Pietro. – Cazzo, la gente ha bisogno di lavorare. Pensa a quelli che sono disoccupati da una vita. Pensa ai ricchi sfaccendati. Ti sembrano felici? – Di conseguenza, chiunque in paradiso abbia voglia di un lavoro – ed è la maggioranza – lo ottiene.Michele si scola il bicchierino di carta fino all’ultima goccia e socchiude gli occhi per la goduria. L’acqua in paradiso… Be’, potete immaginarvela. – Incazzato? – ripete Michele. – Sarà incazzato nero.»
««Sono morta. Mi hanno uccisa loro. Hanno ucciso anche me.» Le parole di quell'anziana donna mi arrivarono dritte al cuore. «Per favore, mi racconti che cosa successe quel giorno.» Il tono della voce di Maria, che aiutava l'interprete, era così grave che quasi non riuscivo a sentire le sue frasi in spagnolo.Il villaggio degli innocenti, di Kathy Reichs - Pythia
«Ho dato un bacio ai bambini e sono andata al mercato.» Occhi bassi, voce inespressiva. «Non sapevo che non li avrei mai più rivisti.»
Dal k'akchiquel allo spagnolo, dallo spagnolo al k'akchiquel, in una continua girandola linguistica di domande e risposte. Ma non c'era traduzione che potesse attutire l'orrore di ciò che veniva detto.»
«Suonava la messa dell'alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt'a un tratto, nel silenzio,s'udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant'Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando:- Terremoto! San Gregorio Magno!Mastro-don Gesualdo, di Giovanni Verga - Sakura
Era ancora buio. Lontano, nell'ampia distesa nera dell'Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l'alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l'allarme anch'esso; poi la campana fessa di San Vito; l'altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l'altra s'erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre.
- No! no! È il fuoco!... Fuoco in casa Trao!... San Giovanni Battista!»
«Lei, Esther, corrispondente di guerra appena tornata dall’Iraq perché l’invasione del paese può avvenire da un momento all’altro, trent’anni, sposata, senza figli. Lui, un uomo non identificato, sui ventitré o venticinque anni, bruno, tratti mongoli. I due sono stati visti per l’ultima volta in un caffè di Rue du Faubourg Saint-Honoré.Lo Zahir, di Paulo Coelho -Vittoria A.
La polizia venne informata che si erano già incontrati in precedenza, anche se nessuno sapeva dire quante volte: Esther aveva sempre affermato che l’uomo – di cui nascondeva l’identità sotto il nome di Mikhail – era una persona molto importante, benché non avesse mai spiegato se fosse importante per la sua carriera di giornalista, o per lei come donna.
La polizia avviò ufficialmente un’indagine. Furono ventilate le possibilità di un sequestro, di un ricatto, di un rapimento seguito da un’uccisione – della qual cosa non ci sarebbe stato niente di cui stupirsi, visto che il suo lavoro la obbligava a entrare spesso in contatto con individui legati a cellule terroristiche, alla ricerca di informazioni. Scoprirono che dal suo conto corrente erano stati effettuati regolari prelievi di denaro nelle settimane precedenti la scomparsa: gli investigatori ritennero che questo elemento poteva essere collegato al pagamento delle informazioni. Non aveva preso nessun vestito; curiosamente, il suo passaporto non fu ritrovato.»
«Sotto la luna d'argento Luis de Santangel, cancelliere reale di Aragona, percorreva faticosamente un viottolo che conduceva al centro della capitale, gli alti stivali che risuonavano sommessamente sui ciottoli. Una sopravveste di seta copriva quasi completamente la tunica e le calzebrache. I folti capelli castani, striati di grigio, gli scendevano fino alle spalle. Al suo fianco si trascinava Abram Serero, più basso, con le spalle arrotondate, il petto robusto e una corta barba color rame.»Per mare e per terra, di Mitchell James Kaplan- Mara
«Sono disteso sul letto. Sto canticchiando una nenia triste, taaa-ta taaa-ta. È il vocalizzo dello sciamano immerso nella tessitura d’un velo di trance. È nascondere i pensieri sotto le spire di un nastro sonoro sempre uguale. Ero molto timido. Avevo pochi amici e troppi pensieri. Spesso ricorrevo a questo genere di trucchi per riuscire a prendere sonno. La mia voce modulata in un suono costante m’infondeva sicurezza, riempiva i vuoti. Cerco di colmare i vuoti perché altrimenti mi scappa di pensare alla scuola. Mi piace studiare, ma non amo i miei compagni, non riesco a legare con nessuno di loro. Così immagino affetti impossibili; ho un fratello folletto, una mamma strega, un papà cavaliere e uno zio demonio. Li volevo incontrare davvero, i miei parenti immaginari. Volevo vivere con loro in un castello infestato da spiriti e megere. Volevo assistere alle battaglie di mio padre contro i draghi che terrorizzavano la valle, e andare a caccia di anime in compagnia dello zio cattivo.»I cerchi del diavolo, di D.F. Lycas - Valetta
««Veni de Libano, sponsa mea…» Gli occhi fermi al bel verso del Cantico di Re Salomone, la mente perduta nel sogno, Williram vedeva una terra sconosciuta e favolosa, beata nella sua eterna primavera, dove la pianta della vite maturava dolcissimi grappoli, e il sole dava profumo a spezie rare e inebrianti. Si diceva che vivessero in quel paese donne bellissime, vestite di veli colorati e trasparenti, che nella danza scoprivano grazie proibite… A questo punto il vecchio monaco distolse la mente da quelle immagini.Il principe scalzo, di Laura Mancinelli - Stefano di Stasio
Nevicava in Libano? Forse sulle alte vette, da cui provenivano i legni con i quali gli antichi romani facevano gli alberi per le loro navi, fusti di conifere alte e diritte. Ma la pianura era benedetta dal sole tutto l’anno, senza geli né brine. Il vecchio monaco, sognando le dolcezze di quel clima, scese dallo sgabello su cui era seduto davanti al leggio e andò ad aprire la finestrella di legno della sua cella. Una folata di vento portò nella piccola stanza qualche fiocco di neve, e Williram si affrettò a richiudere il battente. Non c’erano vetri alle finestre delle celle, perché il convento di Ebersberg era povero, e i vetri erano un lusso. Williram, che di quel convento era abate, voleva condividere gli stenti dei suoi confratelli, e rifiutava gli agi che la sua condizione gli avrebbe concesso.»