L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«La protagonista femminile dell'azione, nella prima parte, è una donna di quarantotto anni, germanica: alta m. 1,71, pesa Kg 68,8 (in abito da casa), perciò ha solo 300– 400 grammi meno del peso ideale. Ha occhi cangianti tra il blu cupo e il nero, capelli biondi molto folti e lievemente imbiancati, che le pendono giù sciolti, aderendole al capo, lisci, come un elmetto. Questa donna si chiama Leni Pfeiffer, nata Gruyten, e per trentadue anni, naturalmente con interruzioni varie, ha subito quello strano processo che si chiama processo lavorativo: per cinque anni come impiegata priva di ogni preparazione professionale nell'ufficio del padre; per ventisette come operaia, ugualmente non qualificata, nel ramo della floricultura. Poiché, in un momento inflazionistico, si è disfatta con molta leggerezza di una cospicua proprietà immobiliare, una non disprezzabile casa d'affitto nella città nuova, che oggi varrebbe non meno di centocinquantamila marchi, è piuttosto priva di mezzi, dopo aver lasciato il suo lavoro senza un serio motivo, non essendo né vecchia né malata. Poiché nel 1941 è stata moglie per tre giorni di un ufficiale di professione della Wehrmacht, oggi riscuote una pensione di vedova di guerra, cui non si è ancora aggiunta una pensione dell'assicurazione sociale. Si può dunque dire che Leni, al momento – e non solo dal punto di vista finanziario – fa una vita da cane, specie da quando il suo amato figliuolo sta in galera.»
«Era ancora scuro quando Marta si svegliò, e il freddo era crudo. Il vento s'ingolfava gelido nelle crepe dei muri della casupola di due soli vani. Si udiva, lontano il rantolo delle onde. Il resto era silenzio.
Immobile, Marta si teneva il più possibile discosta da Roberto che aveva dato segni di irrequietezza, e tossito spasmodicamente, a tratti, durante la notte. Stette ancora un minuto a giacere, arcigna, armandosi per affrontare quest'altra odiosa giornata, sforzandosi a soffocare il malanimo che sentiva contro di lui. Poi, a stento, si levò.»
«His children are falling from the sky. He watches from horse-back, acres of England stretching behind him; they drop, gilt-winged, each with a blood-filled gaze. Grace Cromwell hovers in thin air. She is silent when she takes her prey, silent as she glides to his fist. But the sounds she makes then, the rustle of feathers and the creak, the sigh and riffle of pinion, the small cluck-cluck from her throat, these are sounds of recognition, intimate, daughterly, almost disapproving. Her breast is gore-streaked and flesh clings to her claws.»
«Cara Isabella, sono passati molti mesi dall'ultima volta che ci siamo visti. Li conto sulle dita e sono già diciotto, un anno e mezzo pieno di rivolta e di quello che si usa chiamare la Storia, per poi convincersi che sia un pezzo di carta, o di marmo, e non di vita.
Gli astronomi hanno scoperto una stella dieci milioni di volte più luminosa del sole. Al tempo dei re babilonesi, le avrebbero dato il nome di un dio terribile e smisurato. Al tempo delle agenzie di rating, l’hanno battezzata con una sigla: R136a1. Sono morti J. D. Salinger, Mario Monicelli e Osama bin Laden. Sono nati, secondo le statistiche, centonovantotto milioni e mezzo di esseri umani.
È nata pure una nuova nazione, la Repubblica del Sud Sudan, ma l'oroscopo dice che si ammalerà presto, ubriaca di petrolio. Come il Golfo del Messico, che ha dovuto sorbire in diretta tivù cinquecento milioni di litri di greggio, serviti dalla piattaforma Deepwater Horizon. O come il Delta del Niger, dove la sbornia nera uccide ogni giorno, senza lambire gli schermi del mondo.
Un terremoto di magnitudo 9 ha cancellato in Giappone intere città. L'onda di tsunami e le macerie dei sopravvissuti ci hanno riempito gli occhi per settimane, risvegliando la falsa memoria di catastrofi già dimenticate. La scossa ha danneggiato i reattori di una centrale nucleare e nessuno sa dire quanto dureranno gli effetti delle radiazioni in fuga. Tra diecimila anni, tonnellate di scorie radiotossiche saranno forse l'unica traccia rimasta della nostra civiltà. Chissà se i terrestri del futuro ci chiameranno pazzi o terroristi.
Fino all'anno scorso − ti ricordi? − il terrorista da cartolina era un giovane musulmano, barbuto, con la pelle bruna e il turbante in testa. Oggi è un trentenne norvegese, biondo, cristiano, con un coccodrillo cucito sul cuore. Settantasette persone sono cadute sotto i colpi della sua battaglia contro l’islam e gli stranieri: se di pazzia si tratta, rischia di rivelarsi molto contagiosa. I crociati fibrillano, sbroccano, rimpiangono Bin Laden e lo scontro di civiltà. Sentono l'Armageddon mancare sotto i piedi e ne inseguono disperati una versione casalinga.
Dal Golfo Persico al Nordafrica, uomini e donne, giovani e meno giovani occupano le strade per rovesciare i troni di vecchi tiranni. I terroristi da cartolina si trasformano all'improvviso in eroi ribelli. Gli arrabbiati di mezzo mondo guardano agli egiziani di piazza Taḥrīr.
Una ragazza tunisina ha scritto che il suo popolo ha fatto la storia, ma lei non c'era, stava a Bologna per studiare, così ha perso l'occasione e vuole rifarsi in Italia. Sui muri della città, una richiesta urgente fa eco alle sue parole: «Immigrati, salvateci dagli italiani».»
««Sì, naturalmente, se domani sarà bello» disse la signora Ramsay. «Ma dovrai alzarti all'alba» aggiunse. Per suo figlio quelle parole furono messaggere di una gioia straordinaria, come fosse ormai deciso che la gita avrebbe avuto luogo, che il prodigio atteso con tanta ansia, per anni e anni gli sembrava fosse ora, dopo una notte di oscurità e un giorno di navigazione, a portata di mano.»
«Non ne sono tanto convinto. Il dottore dice che mi farà bene. Scrivere, insiste, devo provare a scrivere. Dice che mi aiuterà a ricordare e a guardare negli occhi l’oggetto del mio malessere, della mia angoscia. Solo così potrò prenderne le distanze. Sarà.
In vita mia, più che i verbali di servizio, non ho scritto molto altro. Niente di originale e creativo, oltretutto. Ma forse quello che mi ha chiesto non è tanto diverso da un rapporto di lavoro.
Lo scrivere, comunque, si trova in cima alla lista delle cose in cui ho sempre fatto più fatica. Fin dai tempi della scuola.
Non ci sono portato, è più forte di me: con la penna in mano mi si blocca il cervello, ci metto ore a buttare giù anche solo una frase. Mi hanno dettoche ho la sindrome da pagina bianca. Non so se è davvero bianca: a me, in testa, diventa tutto nero quando ci provo. Intendiamoci: non è che le parole non le sappia usare, a parlare ci riesco più che discretamente.
Anche perché un poliziotto deve saperlo fare con la gente, non è come per un vigile che se ne sta tutto il giorno in mezzo alla strada ad agitare le braccia e al massimo gli tocca scrivere i numeri delle targhe sul quaderno delle multe. Un poliziotto della Mobile (come è stato il sottoscritto) di parole ne usa e ne sente parecchie. Per anni, per tutta una vita, e anche oltre. Parole collegate a cose che non gli tocca solo sentire. Sono tante anche quelle (parecchio assurde, talvolta) che un poliziotto è costretto a vedere. Tante, troppe.»
«Da veld a boscaglia, da campi a fattorie, fino a queste prime case in rovina che si ergono dal terreno. È notte da tanto tempo. Nel buio, le stamberghe che incrostano la riva del fiume mi sono cresciute attorno come funghi. Oscilliamo. Beccheggiamo spinti da una corrente profonda.
Alle mie spalle, impacciato e ansioso, l’uomo strattona il timone e la chiatta corregge la rotta. All’ondeggiare della lanterna la luce vacilla. L’uomo ha paura di me. Mi sporgo dalla prua della piccola imbarcazione protendendomi sulle acque scure in movimento.
Al di sopra dell’oleoso borbottare del motore e delle carezze del fiume crescono suoni discreti, rumori di casa. Le travi bisbigliano e il vento liscia la paglia che ricopre i tetti, i muri si assestano e i pavimenti si modificano per colmare gli spazi; le decine di case sono diventate centinaia, migliaia; si espandono all’interno a partire dalle sponde e riversano luce su tutta la piana.
Mi circondano. Stanno crescendo. Sono più alte, più grandi e rumorose, i tetti sono tegole, i muri robusti mattoni.
Il fiume curva e serpeggia per fronteggiare la città. Che si profila all’improvviso, massiccia, impressa sullo sfondo. La sua luce prorompe contro la zona circostante, ferendo le colline di roccia con livide chiazze di sangue. Le luride torri splendono. Sono avvilito. Sono costretto a venerare questa straordinaria presenza creata dal limo alla congiunzione di due fiumi. È un’immensa inquinatrice, è fetore, è risuonare di clacson. Grassi camini vomitano sozzura nel cielo, perfino in questo momento, in piena notte. Non è la corrente a spingerci ma la città stessa che ci trascina, risucchiandoci con il suo peso. Deboli grida, qui e là richiami di animali, l’osceno frastuono e il martellare delle fabbriche in cui si accoppiano immensi macchinari.
Simile a un intrico di vene protruse la ferrovia disegna l’anatomia urbana. Mattoni rossi e mura scure, chiese acquattate come arnesi trogloditici, logore tende svolazzanti, dedali acciottolati nella città vecchia, strade senza uscita, fogne che crivellano il terreno come sepolcri profani, un nuovo paesaggio di cumuli di rifiuti, pietra frantumata, biblioteche piene di volumi dimenticati, antichi ospedali, palazzi a molti piani, navi e artigli metallici che sollevano carichi dall’acqua.
Come abbiamo potuto non vedere cosa si stava approssimando? Che scherzo della topografia è mai questo, che consente al mostro scompostamente disteso di nascondersi dietro gli angoli per poi manifestarsi davanti al viaggiatore? È troppo tardi per fuggire.»
«Quello che mi piace di più è la luce che entra dalla finestra. È stranissimo pensare che tutti condividono questa luce, che non è solo per me, quando sono così solo in questo posto. Non ci sono altre cose da farsi piacere, qua, eccetto i sogni. I miei sogni non interesserebbero a nessuno, ma d'altra parte non ho nessuno con cui condividerli, perciò non importa. A me invece interessano perché, a parte la luce e i ricordi e i pensieri e il rumore del mare che riesco a udire se accosto la conchiglietta all'orecchio, be', a parte queste cose non ho altro, capisce? Raimundo una volta mi ha detto che i miei sogni lo annoiavano, immagino sia vero, intendo dire che dev'essere noioso sentire qualcuno raccontare i propri sogni, ma concordo con tio Juan che diceva che la vera vita è quella che si trascorre dormendo. Me l'ha insegnato quando ero piccolo, ora che ci penso mi ha insegnato praticamente tutto, mentre io non devo insegnare niente a nessuno, soprattutto non a Raimundo, che non ascolterebbe comunque. Io posso solo parlare. E ascoltare. Per ora parlerò. Ed è importante, perché se lo faccio bene, con tutti i dettagli, allora tornerò libero, perché io non ho ucciso monsieur Charles, lei deve credermi, d’altronde nessuno ammazzerebbe qualcuno solo perché non si prende la briga di svuotare la caffettiera nel gabinetto, non ha senso.»