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«La via che porta al dispotismo»

Creato il 09 marzo 2013 da Malvino
«Il principio maggioritario è naturale e ovvio fino a tanto che lo si contrappone al suo assurdo inverso, il principio minoritario. Ma se si riflette quanto numerosi e vari possano essere i mezzi per dare a un gruppo una volontà unitaria, c’è da domandarsi […] non sia proprio quello della maggioranza il più artificiale di tutti».La riflessione è di Edoardo Ruffini, uno dei 12 docenti universitari che rifiutò di prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista, e sembra far eco al monito kantiano che la democrazia possa anche essere «la via che porta al dispotismo». L’attenzione, tuttavia, va posta ai «numerosi e vari mezzi» a disposizione di chi voglia snaturare il principio maggioritario, che non sarà superfluo rammentare non poggia sull’assunto che «siamo tutti eguali», ma che conviene a tutti che ciascuno abbia eguali diritti: quali sono questi «numerosi e vari mezzi» in grado di coartare l’opinione dei più in favore degli interessi di un despota o di una élite di oligarchi? Ancora: si tratta di strumenti analoghi a quelli coi quali una democrazia seleziona la sua classe dirigente o di tecniche che nel fondo hanno un fine liberticida? Non si tratta di questioni nuove, ma la politica italiana le ripropone da decenni.Uno dei mezzi è senza dubbio quello che ha dato vita alla cosiddetta partitocrazia, che potremmo definire come l’occupazione degli organi costituzionali ad opera di partiti che hanno perso la funzione di rappresentanza di segmenti della società per acquistare la fisionomia di comitati d’affari tecnicamente attrezzati al depredamento delle risorse pubbliche. Definizione che per molti versi è riduttiva, ma che qui mira unicamente ad identificare un fine nella «volontà unitaria» da dare a «un gruppo».La fisiologica reazione antipartitocratica non si è rivelata estranea a fini analoghi e nelle sue degenerazioni populistiche e demagogiche il principio maggioritario non ha trovato alcun vantaggio. Qui «la via che porta al dispotismo» è stata un’altra: l’aspirante despota ha risvegliato con indubbia perizia gli istinti più bassi presenti nell’individuo, gli interessi più profondamente egoistici sui quali poggiano famiglia e corporazione come espressioni della comunità clanica, ed è stato capace di comporli in ragioni identitarie, mettendosene non già a capo, ma al servizio, direi quasi all’inseguimento, secondando un plebeismo cui ha cercato di dare forma di blocco sociale interclassista. L’elettore con «l’intelligenza di un ragazzino di 12 anni, e nemmeno dei primi banchi», ha così trovato legittimazione culturale e giustificazione morale: chi creava per lui nuovi bisogni, per lo più riedizioni di bisogni ancestrali, in buona parte già superati dall’emancipazione democratica, ma evidentemente mai del tutto estinti, non ha dovuto far altro che proporsi come soluzione per soddisfarli.Più sofisticata, invece, «la via che porta al dispotismo» attraverso la cosiddetta democrazia diretta. Si tratta della primigenia forma di democrazia, che infatti mostra tutti i limiti di ciò che è allo stato embrionale. Non c’è da stupirsi che ancora una volta si cerchi il futuro nel passato: è il vizio di tutti i millenaristi.Le presunte virtù della democrazia diretta sarebbero nel fatto che una cosa buona è tanto più buona quando è al suo massimo grado, qui col rifiuto – però solo formale – del momento della rappresentanza. Di fatto, anche quando si è fatta esperienza di democrazia diretta, si trovò difficoltà a stipare 21.000 ateniesi in un’agorà che ne poteva contenere al massimo 500 e la rappresentanza fu surrogata dal sorteggio. Oggi, si obietta, internet supera l’ostacolo. Rimarrebbe da accertare – e di fatto è impossibile – quanto vi sia di sorteggio, e quanto di cooptazione, nella scelta dei rappresentanti di questo modello di democrazia diretta (sembra una contraddizione in termini, ma si realizza proprio con la presentazione delle liste del M5S a queste ultime elezioni politiche).Ammesso e con concesso che internet sia in grado di superare le difficoltà che si posero ad Atene, rimane il fatto che la democrazia diretta presuppone che tutti i cittadini siano – e qui cito Mogens H. Hansen – «persone intelligenti, capaci di prendere decisioni equilibrate riguardo a se stessi e ai propri concittadini; disposti a trascurare il proprio interesse privato in caso di conflitto con l’interesse generale; sufficientemente informati sulle questioni che devono essere affrontate; interessati a partecipare all’insieme delle attività decisionali, piuttosto che a delegarne parti; [e che] una razionale attività di decisione possa essere condotta su base non professionistica, purché si distingua tra la competenza degli esperti necessaria per predisporre e per formulare i provvedimenti, e il buon senso necessario per assumere una scelta tra le alternative prospettate». Premesse che chi ha costruito il M5S ritiene siano già date di fatto dalla promozione antropologica che si acquista nel consegnarsi ai progetti confusi, ambigui e contraddittori della Casaleggio Associati. In buona evidenza, invece, cè solo il fatto che già dentro il M5S di democrazia se ne vede poca o niente. Più che legittimo supporre che anche stavolta il tribuno della plebe sia il solito malintenzionato di turno.     

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