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La via per Macondo

Creato il 02 luglio 2012 da Ilnazionale @ilNazionale

La via per Macondo2 LUGLIO – La via per Macondo scompare. La città sta per essere cancellata dalle variopinte topografie della fantasia, la stessa che ne aveva tracciato per la prima volta gli estremi, rivelando al mondo intero la sua esistenza.

Gabriel Garcìa Màrquez non scriverà più. La notizia è di un paio di settimane fa, drammatica nella lucida semplicità delle poche righe offerte alla stampa. Il premio Nobel colombiano soffrirebbe di Alzheimer e pare non sia addirittura più in grado di riconoscere i familiari. A renderlo noto l’amico intimo Plinio Apuleyo Mendoza, che si dice molto preoccupato per la salute dello scrittore.

Scrivi da tutta la vita, lo fai per vivere, perchè buttare giù quattro righe su un foglio è un po’ come respirare. E nemmeno puoi pensare che un giorno i ricordi possano iniziare a sfumarsi, volti e parole che si confondono, finchè una mattina ti trovi in mano quell’aggeggio e rimani sorpreso di non ricordarne il nome. Certe volte il destino ci gode con gli sgambetti.

Vera o falsa che sia, la notizia lascia comunque un velo di tristezza, nell’immaginare uno dei più grandi artisti della parola imprigionato e costretto nel labirinto dell’indeterminatezza. Gabriel Garcìa Màrquez è con tutta probabilità il più grande scrittore sudamericano del Novecento. A lui si devono capolavori immortali come Cent’anni di solitudine, L’amore ai tempi del colera o L’autunno del patriarca.

Nato ad Aracataca nel 1927, “Gabo” ha sempre coltivato la passione per la scrittura, pur intraprendendo studi di natura diversa. Iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Universidad Nacional de Colombia a Bogotà, abbandona presto lo studio di materie che poco lo interessano e inizia la sua carriera da giornalista. Si trasferisce a Cartagena, dove comincia a lavorare come redattore e reporter de “El Universal”; “El Heraldo” a Barranquilla e “El Espectador” a Bogotà saranno le tappe successive del suo percorso, che lo porteranno ad essere un apprezzato critico cinematografico. Anni di sogni e notti passate sulla macchina da scrivere; un periodo da vero e proprio bohemien che Marquez racconta con nostalgia nel suo Vivere per Raccontarla, attraversando anche la stagione dei viaggi e dei soggiorni a Roma, Cuba e Londra.

Sono gli anni dei primi racconti, quelli che precedono il successo internazionale che arriva nel 1967 con la sua opera più importante, Centanni di solitudine. Le vicende della famiglia Buendìa e del paese di Macondo raccontate atraverso le generazioni e gli eventi che hanno caratterizzato storia e cultura sudamericana. Personaggi come il colonnello Aureliano Buendìa, lo zingaro Melquiades e l’angelica Remedios sono immagini che rimangono indelebili nell’immaginario collettivo.

Cent’anni di solitudine è il romanzo con cui Màrquez raggiunge la massima espressione del cosiddetto “realismo magico”, tecnica narrativa dove la realtà assume contorni meno definiti. Nelle parole di Gabo presente e passato si fondono, storia e mito viaggiano a braccetto, la vita non appare poi così diversa dalla morte e le certezze si screpolano nella canicola dei pomeriggi del Caribe. Più che un libro uno specchio di vita, dove si attraversano miserie e virtù della parabola umana, affrontate con l’ironia e il disincanto tipici dello scrittore colombiano.

Il premio Nobel per la letteratura arriva nel 1982, ed è la consacrazione definitiva di un maestro che ha fatto riscoprire al mondo la letteratura sudamericana, avviandola ad una nuova e luminosa stagione. Da allora sono seguiti grandi bestseller, racconti più o meno autobiografici, nei quali Marquez non ha mai perso l’impronta immaginifica della propria prosa.

Ora la notizia che tutto può essere finito. E’ triste immaginarlo seduto di fronte ad una tastiera, senza più ricordare i paesaggi che scorrevano dal finestrino del treno e che hanno ispirato case, strade e storia di Macondo. Magari sono malinconie inutili, perchè forse Gabriel Garcìa Màrquez già da tempo si è messo al riparo dai dolori della dimenticanza. E nella stessa frase con cui si conclude il suo capolavoro ci spiega che l’uomo, al pari di leggende e delusioni non è indelebile dalla lavagna della storia.

Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perchè era previsto che la città degli specchi sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memorie degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perchè le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”.

Matteo Dani


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