Boris Pahor, decano della letteratura slovena, scrisse questo breve romanzo nel 1955. La vicenda è ambientata nel 1948 e illustra il non facile tentativo di un reduce dalla guerra e dai lager di trovare una dimensione di umanità e fiducia dopo l'orrore. Mirko Godina, il protagonista, si reca sul lago di Garda dove fu soldato nel 1943. È triestino, di origine slovena, fa l'architetto; il suo pensiero ritorna spesso a Trieste e al Carso, cercando nello scenario lacustre assonanze paesaggistiche con i luoghi natali. Nasce ben presto una storia d'amore con la più giovane Luciana che lavora in una filanda; ma le ferite dell'ultima guerra sono ancora aperte e Mirko mostra rabbia nel vedere come la ragazza e altri del posto difendano la recente dittatura (per ignoranza, debolezza, efficacia della propaganda del vecchio regime). Questa ira viene gradualmente mitigata dalla speranza che nonostante tutto si possa rifondare un nuovo vivere senza violenza.
La villa del titolo è quella in cui visse il Duce, ancora carica di forza e quasi capace di stregare la gente del luogo tenendola avvinta in una sudditanza acritica. Proprio questo aspetto sgomenta il protagonista che ha patito sotto i totalitarismi, come accadde allo stesso Boris Pahor. I deboli si erano ribellati al giogo, ma poi, nota l'ex-soldato, si erano di nuovo assopiti, pronti a stornare vecchi ricordi in realtà piuttosto freschi e quindi mettendosi a rischio di diventare schiavi di altri padroni. La vicenda dura pochi giorni che sono raccontati lentamente, tra riferimenti al paesaggio ora cupo, ora rassicurante, in una stagione in cui il lago è ancora poco popolato di turisti e permette quindi un'osservazione calma e meditata di cose e persone. L'interiorità di Godina è un piccolo laboratorio in cui speranze e inquietudini lottano, sommandosi alle sensazioni non univoche che vengono dalla natura circostante; in fondo c'è l'ottimismo di riuscire a voltare pagina ammaestrando gli altri che non hanno visto l'orrore, spiegando in modo ragionato la differenza tra dittatura e libertà.
La giovane Luciana ha le risorse per crescere e può cogliere, con l'aiuto di Mirko, la manipolazione del potere che ha colpito anche lei. Pahor costruisce con delicatezza il loro dialogo; lui colto, di origine slovena, lei un'operaia del posto, istintiva, ingenua ma ricca di personalità. Un binomio sentimentale particolare, forse poco realistico (se questo può contare) in cui ciascuno comunque arricchisce l'altro, o con l'esperienza o con la sensibilità. In fondo i drammi sono tutti alle spalle e lentamente anche la villa perde il suo aspetto torvo; si guarda al futuro. Il reduce è un architetto, ama la bellezza, vuole costruire case per persone comuni, l'amore che mette nel suo lavoro ispira fiducia nell'avvenire. Il litorale sloveno in quegli anni dipendeva dalle decisioni internazionali; eppure c'era voglia di guardare avanti e di fare progetti come intende fare il protagonista.
Si può amaramente notare che la storia da sola insegna poco. A Luciana e ad altri servono purtroppo delle guide; la devastazione del conflitto non è stata sufficiente ad aprire gli occhi. Quindi anche eventi ben più piccoli dell'ultima guerra mondiale ma comunque importanti, si potrebbe aggiungere pensando alla nostra quotidianità democratica, troveranno, forse, scarsa capacità di interpretazione e comprensione da parte di molti, con evidenti rischi. Tornando al libro, un mondo nuovo sta nascendo; resta da capire ai due innamorati fino a che punto sarà migliore, se la distanza tra i vari ceti si ridurrà, se democrazia e libertà porteranno sensibili miglioramenti anche per chi come Luciana percorre ogni giorno chilometri e chilometri in bicicletta per andare a lavorare in fabbrica. A chi legge il libro oggi, spetta dare la risposta.