La vita ai tempi del Progressive

Creato il 21 luglio 2010 da Cultura Salentina

di Francesco Bucci

C’è un mondo diverso tra le pieghe del passato. E’ un mondo completamente scomparso, in cui i ragazzi portano i capelli tendenzialmente lunghi e un po’ gonfi e indossano pantaloni aderenti che tendenzialmente svasano in basso. Hanno anche maglioni aderenti, da cui spuntano colli di camicia sproporzionati. Quelli che portano gli occhiali, ostentano montature di metallo (meglio se “a goccia”) ed hanno le lenti (bianche o leggermente colorate) sporche di forfora. E le ragazze? E’ strano, ricordo vestiti e pettinature, ma non riesco a descriverli. So solo che quando una ragazza è carina le si perdona tutto (anche un vestito o una pettinatura) e quindi…

In questo mondo vecchio e strano, la musica ha un ruolo importante e pervasivo. Tutti i venerdì si ascolta, all’ora di pranzo, la Hit Parade di Lelio Luttazzi. Dopo mangiato, prima di fare i compiti, leggo un po’ Il Giornalino o vado a fare due chiacchiere con le ragazzine che abitano al portone accanto. Sono due sorelle: una è più grande di me di un anno e siamo praticamente cresciuti assieme; l’altra ha due anni più di me ed è, purtroppo, un altro pianeta. Quando eravamo piccoli non c’erano problemi; poi, ad un certo punto, le cose sono cambiate: sembrava che tutto quello che dicessi o facessi fosse sbagliato e lei aveva un modo di prenderti in giro che faceva davvero male. Da un po’ di tempo, le cose sembrano andare meglio: forse non sono più così stupido (sto diventando grande), o magari lei è più tollerante. Fatto sta che adesso chiacchieriamo dei cantanti che stanno in Hit Parade e il migliore è sempre Lucio Battisti, anche se a parlare con lei non mi sento mai del tutto tranquillo e alle volte dico cose sbagliate e sono il primo ad accorgermene appena le dico (ma non potevo accorgermene prima?) e quando capita subito la guardo per controllare se ha quell’espressione di derisione che aveva una volta (niente? Beh, per stavolta è andata. Strano però: una volta una cazzata così non l’avrebbe fatta passare liscia…). Parlando di musica, capita (per caso, per sbaglio) di attraversare lo specchio e di passare, per un breve istante, dall’altra parte.

Di fronte alle due ragazzine abitano due fratelli. Uno è un anno più piccolo di me e giochiamo assieme da sempre. L’altro è tre anni più grande e la convivenza con lui è sempre stata un problema (troppo grande, troppo bullo, troppo “capo”). Adesso però le cose sono cambiate: frequenta solo ragazzi della sua età e la mattina, quando esce di casa per andare a scuola (con i capelli gonfi, il maglione aderente e tutto il resto), la prima cosa che fa è accendersi una sigaretta.

Una sera li abbiamo visti a Lecce. Tutta la famiglia, intendo. Erano in un negozio di dischi e alta fedeltà del centro e stavano acquistando un piccolo impianto stereo. Là per là mio padre non ha detto nulla, poi più tardi in macchina chiede a bruciapelo:

Che poi, non hanno già il mangiadischi?”.

Il mangiadischi i due ragazzi lo hanno ricevuto in regalo per la Befana qualche anno prima e per mio padre quell’affare rappresenta l’alfa e l’omega dell’ascolto musicale (eccezion fatta, beninteso, per il radio-grammofono che ha comprato a rate negli anni Cinquanta e che tuttora troneggia nel soggiorno di casa nostra). A dir la verità, neanch’io so bene cosa rispondere ad una simile osservazione, ma provo su due piedi ad inventarmi una spiegazione:

Con il mangiadischi non si possono sentire gli Ellepì”.

Gli Ellepì?” fa mio padre, sempre più perplesso.”

Ma sì,” insisto io “i dischi grandi”.

Quante ne sanno, i giovani di adesso” conclude lui. “Per questo ora non basta mai niente”.

E ci risiamo col veleno del genitore, cattivo e insensato. Così imparo a parlare (in realtà imparerò solo quando sarà ormai troppo tardi, ma questa è un’altra storia). Comunque, giusto per togliermi il dubbio, qualche giorno dopo faccio anch’io la stessa domanda al fratello piccolo, e lui, senza fare una piega: “Ma col mangiadischi non si sentono gli ELLEPI’”.

Tombola, gli ellepì. Quegli oggetti misteriosi che il fratello grande porta sempre sotto il braccio tutte le volte che entra o esce di casa. Anche quando va a scuola (e ci credo, che viene bocciato per due anni di seguito!). Anche gli amici che vanno a trovarlo hanno sottobraccio gli ellepì: copertine strane, nomi mai sentiti. Lui frattanto ha preso a canticchiare delle cose esoteriche in vero/finto Inglese, legge una rivista con foto di capelloni impegnati in mirabolanti assolo (si chiama Ciao 2001) ed un giorno rientra in casa portando sottobraccio non il solito ellepì, ma (oh, meraviglia!) un basso elettrico. La voce che inizia a girare è che lui ora faccia parte di un gruppo Pop. Un pomeriggio, mentre esce di casa (io me ne sto da solo per strada a giocare al calcio), gli chiedo a bruciapelo: “A quando il primo ellepì?”. Lui non risponde, ma si allontana sorridendo compiaciuto.

Poco tempo dopo, si rompe una gamba e un giorno che c’è festa a scuola gli amici lo vanno a trovare, portando una chitarra; per tutta la giornata, urleranno a squarciagola “Gioco di Bimba” delle Orme, mentre la madre sfaccenda per casa rassegnata. “Gioco di Bimba” è una delle poche cose che filtrano nella Hit Parade di Lelio Luttazzi, che si occupa di 45 giri e quindi, musicalmente parlando, è tutta un’altra storia.

Sull’onda del successo, le Orme fanno qualche apparizione televisiva in trasmissioni generaliste per promuovere il disco successivo che ha un titolo strano (“Felona”), ma a me sembra bellissimo, e forse lo è. Prima di allora, ricordo solo una strana canzone che risuonava nel juke-box della mia spiaggia, immancabilmente ad ogni fine estate (e chissà chi è che la selezionava). Il cantato non lo percepivo, ma poi arrivava il tema roboante suonato al sintetizzatore e il brano decollava. Solo anni dopo scoprirò trattarsi di “Impressioni di Settembre”, della Premiata Fonderia Marconi (o meglio della “Premiata”, come la chiama confidenzialmente il fratello piccolo). Prima ancora, c’era solo un trio con un chitarrista riccioluto ed un biondino alla batteria: tutti insieme cantano una cosa stranissima che fa, pressappoco, “Non piangere salame dei capelli verderame” (cacchio vorrà dire?). La più grande delle due ragazzine mi dice un pomeriggio che anche quella canzone è stata scritta da Lucio Battisti (“Ancora tu”, si direbbe col senno di poi!). Comunque, a vederli in TV quelli della Formula Tre spaccano, quasi quanto i Delirium che a Sanremo si presentano in trentacinque per fare “Jesahel” o i New Trolls che un pomeriggio d’estate vanno alla tv dei ragazzi a suonare “Una notte sul Monte Calvo” di Modesto Mussorskji.

In casa dei due fratelli, più precisamente in camera loro, il famigerato impianto stereo (che poi a ben guardare è un semplice giradischi con due casse piccole piccole) occupa il posto d’onore, ossia sul comodino tra i due letti. Un giorno al fratello grande vedo fare una cosa stranissima, ossia passare una spazzolina piccolissima sotto la puntina del giradischi. Quando lo racconto a mia madre, lei commenta: “Magari avesse la stessa cura per i libri di scuola!”. Ah, la saggezza delle madri. Io me ne sto lì col mio magnetofono tra le mani (me lo porto sempre dietro) e mi inorgoglisco quando quello grande mi chiede di poter ascoltare una canzone dalla cassetta che ho in quel momento: sono i Flora, Fauna e Cemento, il secondo nastro originale della mia vita (il primo era stato – oh, novità! – “Umanamente Uomo” di Lucio Battisti).

Io mi faccio un punto d’onore nel cercare di essere aggiornato, ma quando parlo di musica col fratello piccolo lui mi spiazza con cose che non so: per esempio, chi saranno mai questi Led Zeppelin? Ed Emerson, Lake & Palmer? Saranno bravi come gli Alunni del Sole? Cosa ci sarà in questa cassetta sulla cui copertina campeggia gente con baffi e occhialini? Il nome del gruppo è così lungo (Creedence Clearwater Revival) che io all’inizio penso che quello lì sia il nome dell’album e che il gruppo si chiami “Pendulum” (che invece è il titolo dell’album). Comunque, quando provo ad ascoltarlo, quel nastro mi suona stranamente familiare: 1) riconosco ben due canzoni, già sentite chissà dove (forse alla radio, forse al solito juke-box balneare). I due pezzi, per la cronaca, sono “Have you ever seen the rain?” e “Hey tonight”; 2) pur trovando alcune parti un po’ noiose, tutto il resto non mi dispiace affatto; anzi, quegli accordi di chitarra elettrica muovono dentro di me qualcosa di istintivo e primordiale che c’era sempre stato ma non sapevo di avere. Insomma, siamo dalla parte degli archetipi.
L’ultimo ricordo che ho di quel mondo vecchio e strano mi vede arrampicarmi alla finestra della camera da letto dei due fratelli, che abitano al pianterreno. La finestra è aperta; dentro, il fratello grande se ne sta steso sul letto ad ascoltarsi lo stereo a tutto volume. C’è un riff pesante e circolare che si ripete incessantemente. Io mi sporgo dentro senza essere visto, allungo una mano e sposto la levetta della velocità da 33 a 45 giri. Il riff metallico e pesante si trasforma in un Paperino punk (insomma, avevo inventato i Dickies con 5-10 anni d’anticipo!) ed io scappo via, felice di questa bravata.

In quella stanza ci torno qualche anno dopo, a prendere in prestito dischi dei Beatles e poco altro (Sweet, Grand Funk Railroad… il resto non fa per me: troppo cervellotico). Gli ellepì sono ancora tutti là, così come lo stereo, il basso elettrico senza una corda accantonato in un angolo ed il poster della Reale Accademia di Musica (il gruppo pop di cui faceva parte, alla batteria, il figlio del cantante confidenziale Bruno Martino). A prestarmi i dischi c’è il fratello piccolo (quello grande ha lasciato la scuola, si è sposato ed è diventato padre – il tutto non necessariamente in quest’ordine); anch’io, nel frattempo, sono passato attraverso lo specchio, complici due dischi per me fondamentali come “Concerto Grosso” dei New Trolls e “Live in England” degli Sweet.

Tornare lì vuol dire, per me, riannodare i fili con un passato che è ancora vicino in termini assoluti (tre o quattro anni al massimo), ma che a me appare lontanissimo, studiando le copertine dei dischi (anche di quelli che non sento: Genesis, King Crimson, Atomic Rooster, Emerson Lake and Palmer, Led Zeppelin) come fossero mappe di un territorio che svanisce a vista d’occhio. In attesa che arrivi il nuovo a spalancare le finestre, a far entrare aria nuova; aria che però, quando arriverà, non troverà purtroppo nessuno ad aspettare di respirarla.


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