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“La vita che non CIE”

Creato il 28 agosto 2012 da Glob011 @glob011

“La vita che non CIE”

Riflessioni e speranze di chi vorrebbe guardare oltre le barriere
 L'Amore ai tempi della FrontieraLa fortuna mi salverà ePapà non torna più. Tre corti per raccontare la vita che non CIE, quella reclusa dentro questi casermoni dai mattoni uniformi che prendono il nome di centri di identificazione e espulsione ma soprattutto la vita vera, fatta di aspirazioni, amori e speranze, che neanche il più pesante mattone può rinchiudere sotto strati di calce.

E’ proprio su questa chiave di lettura che Alexandra D’Onofrioha costruito questa trilogia di corti che vanno oltre al Cie, per dirigersi all’interno dei suoi protagonisti e delle loro storie…

 

Ne parliamo direttamente Alexandra…


R: Essere inermi,  reclusi, sospesi . “La vita che non Cie”  tratteggia molto bene questi sentimenti ma sembra che alla fine si insinui comunque uno spiraglio di fiducia e un soffio di speranza e di libertà nelle vite dei tre protagonisti. Lo spettatore sembra leggere questo messaggio tra le righe. Sei d’accordo? Da dove sei partita per l’idea di questa trilogia e soprattutto, a riprese finite, dove pensi di essere approdata ?

 

A: Il punto di partenza sono le persone, le loro relazioni, e le storie che ci raccontano dal punto di vista esperienziale e sentimentale, che cosa possa voler dire venire privati della propria libertà per mesi, senza aver commesso nessun crimine. Ho scelto appositamente di partire dagli elementi umani che più mi avvicinavano a queste storie. Sì perché prima ancora di provare il forte senso d’ingiustizia, quando con Gabriele Del Grande abbiamo conosciuto i protagonisti dei nostri corti, mi sono emozionata delle loro storie d’amore, di avventure e disavventure. Queste mi raccontavano di come dei miei coetanei avevano vissuto i loro legami, la solitudine, la separazione, la genitorialità oltre che alla violenza della frontiera. Per me innanzitutto le loro esperienze mi hanno insegnato qualcosa in più riguardo alla vita, e a come le persone rispondono in maniera diversa agli eventi, ai limiti e agli ostacoli. Per quanto banale possa sembrare quest’affermazione, dobbiamo ancora imparare come andare dietro ai numeri, alle nostre categorie e definizioni politico-burocratiche (come per esempio “clandestino”, “rifugiato”, “immigrato”, “migrante” ecc.) per riscoprire le persone, con i loro nomi, le loro storie e le loro relazioni.

E così sfuggiamo alla solita trappola, in cui cadiamo anche nei documentari e reportage di denuncia, dove le persone vengono mostrate come le vittime delle politiche xenofobe del nostro paese. E recuperiamo le persone, nella loro complessità, con i loro desideri, le loro scelte, la loro percezione degli eventi. Penso che solo così si possano pian piano ricostituire nuovi immaginari.

Seppur non sia possibile farlo in maniera approfondita con dei corti di 15-20 minuti, spero di aver fatto emergere queste sfaccettature, e più di un approdo mi sembra di aver scelto una direzione verso la quale sia importante mettersi in cammino.

 

 

R: La vita all’interno del Cie ci cambia, la persona che esce dal Cie ha un’altra mentalità, cambia

persino nel suo comportamento e persino il modo in cui cammina cambia.  Ne “La fortuna mi salverà” Abderrahim, il protagonista fa una profonda riflessione di cosa vuol dire essere

segregato in questa struttura a stringere le sbarre di una prigione costruita per la raggiungere la propria libertà. Nel dirigere nello specifico questo cortometraggio quali sono state le sensazioni e le

emozioni colte in queste strutture in cui il Cie(lo) si vede ben poco?

 

· A:Le parole di Abderrahim sono un’importante rielaborazione di un’esperienza che difficilmente si riesce a raccontare. Tanti sono i pensieri, gli incubi e le preoccupazioni di chi si trova recluso all’interno dei CIE che le persone preferiscono perdere la propria lucidità, la propria sensibilità rifugiandosi nel torpore degli psicofarmaci. Spesso invece, come in un disperato richiamo alla vita, i detenuti ricorrono a gesti estremi di mutilazioni e ferite che si autoinfliggono, o tentati suicidi. Quando i corpi, segregati, criminalizzati, controllati, puniti, drogati diventano l’ultimo territorio di contesa, allora anche la radicalità di queste azioni diventa un comprensibile e legittimo gesto di riscatto. E se si sopravvive alla detenzione senza perdere la testa, com’è possibile recuperare una “normale” relazione con il proprio corpo? Abderrahim in seguito dice come la vita, nonostante sia stata dura, gli è stata da maestra. Persino l’esperienza del CIE ha qualcosa da insegnare, ricorda ai suoi amici che sono appena stati rimessi in libertà. Per loro è importante riuscire a trovare le parole, i pensieri da attribuire all’esperienza. Per molti è importante proprio perché in qualche modo li aiuta a non perdere la testa, e il senso della vita. E’ il senso e l’importanza che hanno le storie, altrimenti le persone non saprebbero come comprendere quel che Hannah Arendt chiama “una sequenza intollerabile di eventi”. Com’è possibile altrimenti darsi una spiegazione, un motivo per aver subito una punizione, una tortura come il CIE, che rinchiude le persone non perché hanno fatto qualcosa di sbagliato, ma perché non possiedono un foglio di carta o il passaporto del colore giusto? Per aver osato viaggiare, in un mondo in cui tutto è così interconnesso e ci sono voli low cost che partono dalle maggiori città italiane per i luoghi turistici più rinomati del Marocco e della Tunisia? Com’è possibile che nel 2012 viaggiare, per alcuni sia un diritto, e per altri un reato?

Sono domande a cui neanche noi riusciamo a trovare risposte, ma è importantissimo continuare a trovare che sia assurda la situazione in cui ci troviamo tutti.

 

R: La vita che non Cie non utilizza per forza il dibattito, la polemica e l’attacco diretto per raccontare. Semmai storie, racconti, emozioni, drammi e piccole vittorie si trasformano in note per comporre una sinfonia che vada al di là delle barriere, capace di esser ascoltata da tutti.

Personalmente, una scelta di stile encomiabile. Che opinioni avete raccolto da parte del pubblico?

 

A: I corti stanno avendo un grande riscontro. Le storie sembrano toccare delle corde sensibili delle persone. A volte dopo la proiezione è difficile parlare, si percepisce nel pubblico un bisogno di elaborare i pensieri e i sentimenti, stare in silenzio prima di riuscire a usare la parola per fare dei commenti o delle domande. In realtà la cosa più rincuorante del lavoro che si sta facendo insieme al pubblico è che nei discorsi che si fanno dopo le proiezioni, le categorie che siamo normalmente abituati a usare per parlare delle esperienze di migrazione fanno fatica a riapparire. Le scatole in cui siamo abituati a mettere i nostri discorsi si aprono e si riesce a guardare alle esperienze e alle persone da più vicino. C’è molta curiosità nel sapere che seguito hanno avuto le storie e le persone, come abbiamo incontrato Winny e Nizar, Abderrahim, Kabbour, Bogusha e Tareq, come si sono sentiti a girare i film, quali sono i messaggi (qualora ce ne siano) che vogliono far passare alla gente che li conosce attraverso i video. E’ come se in poco tempo si entrasse in una relazione personale con i protagonisti, e attraverso questa si crea la necessità poi di sapere e informare riguardo alle condizioni della detenzione nei CIE.

Il film ormai è stato proiettato in tre paesi oltre che in Italia: in Germania, in Inghilterra, e in Tunisia. E’ importante anche questo lavoro che abbiamo intrapreso insieme a Gabriele, di andare a confrontarci con un pubblico della riva sud del Mediterraneo. E’ importante riuscire a capire come la frontiera viene percepita dall’altra parte, e come vengono visti gli espulsi. Anche da lì ne esce fuori un quadro molto complesso, di una società divisa dove i ragazzi che provengono dai quartieri più popolari, che sono quelli che poi intraprendono il viaggio in barca bruciando la frontiera, vengono colpevolizzati e incompresi. Allo stesso tempo la rivoluzione ha insegnato qualcosa di fondamentale, e cioè, che ribellarsi a delle politiche ingiuste è possibile e legittimo.

 

 

Credit “La vita che non Cie”

Regia e riprese: Alexandra D'Onofrio
Con la collaborazione di Gabriele Del Grande
Montaggio: Antonio Augugliaro
Post produzione audio: Tommaso Barbaro (Redrum Murder)
Realizzato da Fortress Europe (2012) con il contributo di Open Society Foundation


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