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La vita davanti a sé (1975, tit. or. La vie devant soi) di Romain Gary è una storia magnetica, uno di quei libri che - se entri in sintonia - ti accoglie nel suo caloroso vortice di sentimenti e di affetti, nella sua acre e farneticante tenerezza. È anche un romanzo crudele, come tutti i romanzi di vita, intriso di un vitalismo più forte del materialismo su cui si fonda. Siamo a Parigi, ma non c'è nessuno scorcio su quella ferraglia inutile e orrenda della torre Eiffel, simbolo di una Parigi attaccata alle sue cartoline e ai quadretti buoni del salotto; gli stessi Champs Élysées sono un luogo commerciale, un luogo senza una storia per i suoi abitanti. Lo stesso incantevole proletariato di Belleville è solo un luogo da vivere, non c'è spazio per sentimentalismi, non si può emergere come aveva fatto molti anni prima da lì Edith Piaf, si può solo desiderare di essere un po' diversi dagli altri.
E, grazie al cielo, non manca diversità al lirico Momò, In lui la vita è spietata, è qualcosa che non riguarda neanche il suo vivere: come se lui potesse vivere senza. Nella sofferenza di corpi che si trasformano, che prendono strade diverse dalla volontà, di corpi da recuperare e quasi ricostruire (come non pensare a La morte ti fa bella?), fa breccia questa singolare percezione di sé, da parte di Mohammed: La vita davanti a sé è anche uno spietato inno all'eutanasia e all'autodeterminazione dei corpi e delle anime. il ragazzino non riesce a spiegarsi le ragioni di leggi che impediscono a una persona di dare un taglio alla vita quando questa significa solo sofferenze.
D'altra parte Momò non fa nulla per fuggire al dolore, se questo ha da attraversarlo: ci sono le debolezze, è chiaro. Ma lui è lì: disposto ad amare contro ogni apparenza, disposto a recuperare in alcune incisive iniziative verbali l'inspiegabile felicità dell'incantevole Banania, il lato peculiare di Madame Lola, un ex-pugile che si prostituisce in abiti e sentimenti da donna, le amnesie dell'adorabile signor Hamil con il suo senso dell'amore e dell'amare. E naturalmente lei, Madame Rosa, col suo cantuccio ebraico di Parigi, con il suo ricordi immediati e sussultori di Hitler e di Auschwitz, con i pochissimi capelli rimasti e con le sue forme ormai inaccettabili. Momò si annoia con la vita, non è un balocco che lo attiri, lui è tipo che vive e ha certe sue idee chiare che bastano al mondo, al mondo davanti a sé, e chiamiamolo pure vita se proprio ci piace, ma si tratta solo di Momò e di quel po' che sa di sé.
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