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LA VITA DI ADELE | un film di Abdellatif Kechiche

Creato il 20 dicembre 2013 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

banneradeleAmanti della narrazione a metà: questo film è per voi, soprattutto se patite la segreta perversione di abboccare all’amo della dichiarata rappresentazione della realtà ripresa da un’inarrestabile e opprimente handycam, oggi più in voga che mai perché fa tanto Voto di Castità o Dogma 95, scegliete voi. Il flusso di coscienza, la maturazione e la solitudine di Adèle, adolescente come tante in una città del nord della Francia, sono raccontati da primi piani talmente crudeli da rivelare l’inconsistenza e l’imbarazzo dell’attrice principale che improvvisa e deborda senza verità. Kechiche regista pretende che un’attrice inesperta quale Adèle Exarchopoulos si annulli nel personaggio dandogli addirittura lo stesso nome, peccato che il personaggio sia disperatamente in cerca dell’autore e la sceneggiatura risulti inconsistente e improvvisata per quasi tutti i 179 minuti del film. E la cifra del non avere stile è proprio quella dell’improvvisazione. Di che racconta La vita di Adèle? Esiste un racconto? La risposta è tutta in quegli spaghetti alla bolognese continuamente ingurgitati dai protagonisti, nel continuo parlare di nulla con l’aggravante del disgusto provocato dal parlare con la bocca piena, che per una scena è sopportabile, ma per venti minuti filati diventa imbarazzo e raccapriccio. Non vedevo tanta pastasciutta in un film dai tempi dei gloriosi principeschi bianco e nero di Totò, ma almeno lui un po’ se la metteva in tasca con meravigliosa nonchalance.

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Ci si è dunque riempiti la bocca della parola capolavoro, i critici hanno suonato la lira, la giuria del Festival di Cannes ha assegnato all’opera l’ambìta Palma d’oro perché, va detto, questo film piccolo piccolo in anni di piccolo cinema più che un film è un evento, servito sul piatto d’argento della contemporaneità dei primi matrimoni gay alla francese con tanto di scandaletto per dei nudi, invero bellissimi, e delle scene di sesso saffico che di erotico hanno pochissimo e di morboso nulla, anzi: ho trovato queste scene finte e addirittura patinate; nessuno scandalo, nessuna trasgressione post Waters, ed è un peccato perché si poteva essere più espliciti e, soprattutto, più creativi. Penso all’erotismo emanato da Natalie Portman, sensualissima ne Il cigno nero e al suo confronto le due principessine francesi sembrano delle principianti spaiate spiate in un amatoriale a basso costo, tanto che mi chiedo quanto il regista tunisino abbia amato i suoi personaggi. Si è letto degli stracci volati tra le due attrici per la severità con cui sono state trattate sul set e il regista che, di rimando, le ha accusate di pessima recitazione, ma questo attiene alla sfera del pettegolezzo e del marketing anni dieci. Quale la chiave di volta, a volerla trovare? Paradossalmente trovo che sia l’omofobia, il film potrebbe alimentare l’omofobia perché finge di analizzare senza filtri e con il paravento del realismo il tema dell’omosessualità senza neanche considerare di approfondire la materia lasciando sullo sfondo le criticità sociali e culturali che un argomento come questo sollecita. A dodici ore dalla visione del film cerco di farmelo circolare nelle vene, di trovare spiegazioni per la scena in cui Adèle balla al gay pride, una scena così estranea al contesto e alla personalità (quale?) della ragazza che sembra messa là a bella posta per conferire una valenza politica o sociale all’opera; siamo onesti, questo è l’unico accenno politico in un film meno politico di una qualsiasi puntata di una telenovela messicana.

Insomma, quale clinica della Timidezza ha frequentato la protagonista se arrossisce senza motivo e poi tradisce serenamente la sua compagna la prima sera in cui resta sola e col primo uomo che capita? Ma il ridicolo si raggiunge – e nel comico involontario si precipita – con le citazioni di Sartre (per non parlare degli omaggi a Truffaut, Marivaux, ecc.): mentre mi agito nell’angusta poltrona del cinema, in sala si registrano le prime defezioni; ho ammirato due coppie che hanno abbandonato la sala a metà proiezione con classe, senza commentare a voce alta e senza nemmeno l’accenno a fischiare dimostrando un autocontrollo degno di un reale inglese, uno a caso. Dalla mente degli sceneggiatori poi il parto d’inizio Millennio, l’Invenzione, udite udite: far finire la storia lesbica tra le due ragazze insinuando subdolamente differenze socio-culturali incolmabili; mentre ci viene rifilato tutto ciò che è banale e non fa parte della cultura lesbienne, compresa la preferenza delle ostriche che ricordano altro – e mi scappa da ridere – non so più cosa aspettarmi sullo schermo, valutando l’appetibile ipotesi di uno sbarco alieno che mi rapisca e mi dimentichi in un’altra Galassia. Se empatia si deve provare per qualcuno, proviamola per le due bellissime attrici, contribuiamo alla creazione di catene umane e pagine sui social networks perché a Kechiche non venga in mente di girare i capitoli 3 & 4 della vita di Adèle. E se avesse in mente un decalogo, un progetto alla Kieslowski o alla Linklater?

Carlo Camboni

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Cover Amedit n° 17 – Dicembre 2013. “Ephebus dolorosus” by Iano

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