Il nuovo appuntamento del forum permanente di Letteratitudine intitolato LETTERATURA E MUSICA, è dedicato al volume “La vita e l’opera del compositore Foltýn” di Karel Čapek (trad. di Giancarlo Fazzi, Skira 2014).
Articolo di Claudio Morandini.
* * *
Foltýn di sicuro è un artista tardoromantico, di quelli esasperatamente dionisiaci: il suo vero dramma forse non sta nella mancanza di metodo, nel velleitarismo, nell’incapacità di realizzare qualcosa, ma proprio nel trovarsi a coltivare un’idea superata di arte in un’epoca in cui la riflessione sull’arte va in tutt’altra direzione. Anche fisicamente Foltýn richiama certe figure allampanate da dagherrotipo, certi artisti boccoluti del secolo precedente dall’atteggiamento irrimediabilmente bohémien: ostenta un’acconciatura che cura più del resto della sua persona, non trattiene le emozioni che lo scuotono fino al pianto, al tremore; sin da adolescente ha “una carnagione da ragazza, gli occhi azzurri e un vello dorato da agnello” su un collo bianco da “oca permalosa” o “a forma di salsicciotto” a seconda dei testimoni, “grandi mani impacciate”. E sin da adolescente suona con un trasporto fuori controllo, come se corpo e pianoforte fossero l’uno la prosecuzione dell’altro, e la musica uscisse dal suo corpo come una secrezione, con la violenza di un’espettorazione. La sua estasi decadente, dannunziana, durante l’esecuzione al piano è la parodia di un orgasmo, compresa la prostrazione una volta conclusa la performance: è uno stato di possessione che sgomenta i presenti e li riempie di vergogna, come se avessero assistito a un atto privato, a qualcosa di sconveniente – in più, non sembra mai del tutto sincera, ma è appunto come l’ostentata simulazione di un’estasi.
“Io sono un temperamento dionisiaco” ripete già da ragazzo, e lo ripete tanto da finire per crederci: l’arte è per lui trasporto, passione divorante, eccesso, istinto, ebbrezza, perenne condizione orgiastica, “vita terribile e dissoluta” con pulsioni autodistruttive. Si accompagna a megalomania, a progetti fumosi e eccessivamente ambiziosi, a incapacità di giudicare con obiettività. Egli resta a uno stadio adolescenziale, se non infantile. I testimoni non escludono che vi sia in lui un certo talento artistico, una certa propensione naturale alla musica, ma non ne sono sicuri: di sicuro essa è come soffocata da un temperamento incapace di coltivare l’arte con pazienza e umiltà. “Ogni artista è tremendamente istintivo e sensuale” dirà lo stesso Foltýn, che si definisce “un tipo spaventosamente passionale”: e non si sa se nel dirlo vuole solo impressionare la ragazza del momento o cerca di convincere se stesso creandosi un alibi da artista per giustificare certe sue debolezze. Di sicuro suona drammaticamente provinciale, proprio quando aspira a una dimensione cosmopolita se non universale.
Quando gli si chiede si suonare al pianoforte qualcosa di suo, Foltýn nicchia, o improvvisa lì per lì o suona musiche di altri compositori: delle sue opere rivela giusto i titoli, qualche dettaglio, ma è incapace di dar forma alle sue intuizioni, di trasformare in partitura certe sue idee fumose. È così per la prima composizione di cui si ha notizia, “Ariel”, un improbabile poema sinfonico; per l’ancora più improbabile progetto di opera dall’epistolario di Abelardo e Eloisa; e soprattutto per l’opera della maturità, un melodramma dedicato all’eroina biblica Giuditta, che diventerà un pasticciato intrico di pagine scopiazzate sciattamente a destra e manca o commissionate a giovani poeti o musicisti squattrinati e spacciate per proprie, prive di coerenza le une con le altre, inficiate da un ingenuo e velleitario descrittivismo, e irrimediabilmente destinate a non essere mai rappresentate.
L’arte, la musica vanno in tutt’altra direzione, si diceva, in quello scorcio di Novecento che prende le distanze dalle ultime propaggini del romanticismo e scopre l’oggettività, il calcolo, l’equilibrio formale, si raffredda, si fa apollineo e neoclassico (o neoneoclassico). Foltýn non se ne rende conto, rimane legato a un’estetica passionale che vede nel gesto artistico un atto erotico, supremamente individualistico. Per questo suonano particolarmente severe le testimonianze su di lui di persone come il Dott. V. B., suo coinquilino ai tempi dell’università, e soprattutto Jan Trojan, musicista professionista che cercherà di mettere ordine nel guazzabuglio della “Giuditta”. Al primo ripugnano i paroloni fumosi (“intuizione”, “subcosciente”, “sostanza primordiale”) con cui Foltýn si riempie la bocca, e ripugna soprattutto l’equivalenza musica-sensualità che alimenta l’immaginazione di Foltýn e gli fa eseguire un valzer come se si stesse contorcendo su un letto durante un coito. V. B., nel condannare questa equivalenza, finisce comunque per riconoscere alla musica, o se non altro a Foltýn, la capacità mefistofelica di evocare il sesso e chissà che altro – ma i tempi sono cambiati, e tutta questa sensualità è imperdonabilmente volgare. Jan Trojan, dall’aria di scienziato più che di artista, difende invece la forma, la struttura, e vede nell’opera musicale l’equilibrio del cosmo (e in questo un riflesso dell’atto divino della creazione), non il caos primigenio. La sua voce paziente e sconcertata conclude le testimonianze raccolte nel romanzo: e il suo esame della solita “Giuditta” è un continuo “non si fa”, un “non va bene”, un “così non può andare”. L’arte deve essere perfezione (l’ispirazione non c’entra nulla, è solo questione di “precisione del sapere”), non potrà mai giovarsi dell’approssimazione – e il melodramma, proprio in quanto contaminazione di generi, stili e discipline artistiche, non è certo l’arte più adatta a quei tempi. Anzi, se l’arte è umile, ostinato tributo alla perfezione divina, la presunzione e l’approssimazione recano in sé l’impronta del diavolo. Insomma, se Foltýn è la caricatura dell’ultimo dei tardoromantici, Trojan lo è dei più rigorosi formalisti.
Foltýn, nel suo vivere da artista, confonde i piani: ritiene di dover avere avventure con tutte le cantanti che vorrebbe coinvolgere nell’allestimento del suo capolavoro; si ubriaca e si accompagna ai peggiori scrocconi nelle bettole (almeno uno di loro, “Kanner il cieco”, sciupa davvero un prodigioso e selvaggio talento musicale); prende “l’idea”, l’intuizione, per la creazione, la febbre creativa per l’ispirazione, l’idea iniziale per il risultato finale (per questo continuerà a ritenere sua la “Giuditta”, pur affidandone la stesura ad altri e ignorando quante altre Giuditte siano già state portate a teatro); confonde la frequentazione del bel mondo con il successo artistico, e una benevolenza comprata con un’ammirazione sincera. Se vogliamo azzardare un paragone forzato, è una specie di Ed Wood ante litteram (ma lo sguardo di Čapek è più sottile di quello di Tim Burton, il trattamento più ambiguo, le conclusioni meno indulgenti).
Quanto ha davvero scritto Foltýn? A leggere certe testimonianze si direbbe che abbia soltanto improvvisato, cincischiando al pianoforte, e per il resto abbia commissionato sottobanco versi e musiche che avrebbe poi spacciato per suoi. È un baro, un truffatore, troppo distratto dalle occasioni di una vita irregolare e eccessiva e da un’idea distorta di mecenatismo, oltre che da un benessere acquisito con nozze di comodo, per comprendere che cosa significhi davvero comporre. Che abbia del talento, lo si suppone soltanto. Molti rideranno di lui, e applaudiranno le sue esibizioni solo per ridere di più alle sue spalle (un po’ come accadrà a Florence Foster Jenkins alla Carnegie Hall negli anni Quaranta). Eppure, alla fine, quando muore prematuramente e in miseria, veri e rispettabili musicisti (tutti quelli che lui ha coinvolto nei suoi velleitari progetti, o che ha invitato a casa sua con tutti gli onori) gli tributeranno onori da artista – in realtà, quegli onori vanno indirettamente ai poveri ghost composer che hanno scritto per lui. Ma in fondo, se non è stato un artista, ha voluto fortissimamente esserlo, ed è questo, parrebbe, il suo maggiore pregio.
La satira di Čapek è misurata e attenta. Evita le facili caricature, le parodie dozzinali. Il suo Foltýn conserva sempre, anche nelle pagine più farsesche, un fondo drammatico, quasi patetico, e la pietà che provano nei suoi confronti altri personaggi sembra sincera.
* * *
Karel Capek (1890-1938) fu scrittore, giornalista e drammaturgo, uno dei maggiori autori cechi del periodo fra le due guerre. Tra le sue opere tradotte in Italia ricordiamo R.U.R. e L’affare Makropulos (1971), La fabbrica dell’Assoluto (1984), Viaggio al Nord (1992), Racconti matematici (2006), oltre alle Favole per bambini, illustrate dal fratello pittore e filosofo Josef.