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La Vita Infelice dei Ragazzi di Pier Paolo Pasolini

Creato il 19 ottobre 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
La Vita Infelice dei Ragazzi di Pier Paolo Pasolini

Le parole più belle, gonfie di emozione e rabbia, le pronunciò Moravia al suo funerale. L’omaggio muto più significativo, invece, glielo fece Moretti in “Caro diario”, girando in Vespa fino all’Idroscalo di Ostia, dove lo scrittore-poeta-regista era stato selvaggiamente assassinato. Tutta la classe intellettuale italiana ha fatto e farà, nei decenni a venire, inevitabilmente i conti con l’opera di Pier Paolo Pasolini. La figura ambigua e contraddittoria della sua persona è infatti solo una porta d’accesso, a volte sordida, a volte persecutoria ma mai neutrale, alla vastità proteiforme del suo ingegno. Scrivere qualcosa di generico su Pier Paolo Pasolini è impresa ardua. Sarebbe come cercare di acchiappare un dinosauro con un retino da farfalle. Per sbrogliare la matassa della sua produzione, occorre con un lavoro certosino rintracciare tutti i fili intrecciatesi e concentrarsi pazientemente su uno alla volta. Qui ci interesseremo allora soltanto allo scrittore e più in particolare analizzeremo il suo romanzo d’esordio, quel “Ragazzi di vita” che, pubblicato da Garzanti nel 1955, segnò anche l’inizio dell’ostruzione che la censura gli praticò per tutta la durata della sua esistenza. Lo scrittore e l’editore subirono infatti un processo per presunta oscenità che si concluse con la formula dell’assoluzione piena. Nonostante il favore del risultato giuridico e la testimonianza di alcuni dei maggiori intellettuali dell’epoca (Gianfranco Contini, Carlo Bo e Giuseppe Ungaretti, che scrisse una lettera firmata al tribunale di Milano), l’opera era stata subita bersagliata da un fuoco incrociato di strali. Le critiche maggiori riguardavano l’inserimento della tematica della prostituzione maschile e il linguaggio postribolare usato dai suoi protagonisti. Per quanto riguarda la prima accusa, basta leggere il romanzo per notare che l’episodio incriminato è assolutamente marginale nell’economia del testo, dato che occupa appena poche pagine di uno degli otto capitoli in cui è diviso il libro. Inoltre Pasolini evita con accortezza i particolari più laidi, concentrandosi più che altro sullo squallore della vendita del proprio corpo da parte di un ragazzino minorenne, che si concretizza come ultima soluzione per il procacciamento di denaro. Anche per quanto riguarda la volgarità del linguaggio utilizzato, la polemica appare pretestuosa. Le bestemmie religiose, invero assai frequenti nei dialoghi dei ragazzi e del popolo, sono amputate preventivamente con i puntini di sospensione. Inoltre, il riportare con precisione filologica e ossessiva i turpiloqui dei protagonisti, è una precisa scelta stilistica e voler calmierare la quantità di parolacce significherebbe uno scorrazzamento delegittimante nell’autorialità di chi scrive. In un intervento di poco posteriore all’uscita del libro, lo stesso Pasolini motivò questa operazione regressivo-mimetica con la volontà di “lasciar parlare le cose” direttamente, in modo che la vera identità socio-culturale dello scrittore non infici su una rappresentazione del popolo il più possibile veritiera. Come riporta Vincenzo Cerami (lo sceneggiatore premio Oscar de “La vita è bella”) nell’introduzione dell’edizione Nuova Biblioteca Garzanti da noi letta per questa recensione, lo stesso Pasolini disse: «La “mimesis” dialettale contaminata con la prosa letteraria è il più rischioso, massacrante, esasperante lavoro letterario che si possa affrontare». Lavoro che, per quanto travagliato possa essere stato, lascia in alcuni esiti qualche dubbio di riuscita. I dialoghi tra i ragazzi, le loro schermaglie verbali, la plasticità delle invenzioni popolaresche («Me fa na rabbia che je cecherebbe tre occhi co du dita, a sto fijo de na mignotta») sono quanto di meglio la letteratura italiana abbia prodotto in quegli anni, scaturiti dalla sensibilità partecipe dell’autore verso i suoi protagonisti.

una immagine di Copertina di Ragazzi di vita Garzanti su La Vita Infelice dei Ragazzi di Pier Paolo Pasolini

Ciò che più lascia perplessi è la contaminazione tra scrittore colto e scrittore “regredito”, che si palesa soprattutto nella costruzione della frase. Questa avviene seguendo le regole della sintassi italiana piuttosto che quella dialettale. Sembra così che Pasolini non abbia voluto (saputo?) andare oltre la dimensione del lessico, non rinunciando a una costruzione del periodo forbita. Sono inoltre presenti alcuni squarci lirici di notevole impatto che stridono con l’analfabetismo dei giovani descritti e che denunciano la presenza di un narratore ideologico proprio là dove l’intellettuale bolognese ne cercava la soppressione. Il modello, dichiarato, di Verga e “I Malavoglia” resta allora non raggiunto. In quel romanzo, lo scrittore catanese era riuscito a far “regredire” (per usare la terminologia pasoliniana) la sua lingua addentrando tutta la sintassi nel periodare meridionale. Formule proverbiali, dislocazioni a destra e a sinistra, uso del “ci” enclitico e altri espedienti di questo tipo, contribuivano in quel caso a calare, con ancora più marcata partecipazione, il lettore nei costumi perfino linguistici dei poveri pescatori di Acitrezza. In “Ragazzi di vita”, Pasolini lascia sì il proscenio agli adolescenti ma se ne appropria per occasionali descrizioni poetiche di luoghi e sentimenti che non possono appartenere ai suoi protagonisti, né a un narratore dello stesso piano culturale. L’uso del dialetto romano si rivela comunque la scelta più felice per trascrivere sulla carta la personale adesione dello scrittore verso gli strati più bassi e infimi della popolazione romana. Anche la reiterazione continua di motteggi, improperi e offese contribuisce a far conoscere al lettore un mondo per forza di necessità incolto, e attento solo alla soddisfazione di esigenze primarie, biologiche. Una nota negativa sentiamo però di muoverla al glossario, posto alla fine del romanzo, reso deficitario anche da una nota esplicativa raffazzonata. Molti termini che avrebbero meritato una spiegazione, nel breve dizionarietto finale non trovano posto. Inoltre le poche parole che invece vi sono presenti, all’interno del romanzo non sono segnalate in nessun modo (il corsivo, il neretto, una sottolineatura) e ciò spesso causa ricerche infruttuose e frustranti. “Ragazzi di vita” è un libro viziato da un continuo rivolo di ideologia che qua e là esonda non poco. La visione mitica e astorica che Pasolini ha del popolo, splendidamente compendiata nei versi de “Le ceneri di Gramsci” in questo modo: «attratto da una vita proletaria / [...] è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza», è un elemento che attrae o repelle, inesorabilmente. Non si può, cioè fare a meno di prendere posizione su questi ragazzi che vivacchiano alla giornata con mezzi illeciti, che speculano sulle debolezze di compagni con cui fino a pochi minuti prima avevano fatto il bagno nel Tevere, che regolano i loro conti con vessazioni verbali e fisiche.

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Ed è lo stesso Pasolini, con questo libro, ad additarci i colpevoli del degrado di questa massa abnorme di derelitti: i borghesi e le loro autocratiche visioni capitaliste e paternaliste, rivelatesi da secoli cieche e impotenti di fronte alla criminalizzazione di questo sottobosco vastissimo che si forma attorno agli agglomerati industriali. Nel romanzo non si danno giudizi di tal guisa, cosa che invece lo scrittore compie sia nelle lettere che spedisce a Garzanti insieme al manoscritto, sia in saggi posteriori. L’assenza dei borghesi dalle sconfinate periferie romane è perciò da intendersi come un’assenza di politiche interventiste o quantomeno assistenziali nei confronti di quei quartieri e della gente che ci vive. Quel peccato originale si rintraccia nella precisa temporalità della vicenda: l’arco del secondo dopoguerra fino ai primi anni Cinquanta. In quello scorcio di tempo si poteva ricostruire, su nuove basi e su nuove credenze, un’Italia più attenta a politiche comunitarie che aiutassero tutti gli strati della popolazione. Si è invece scelto, e l’esempio della Capitale è il più lampante, di convogliare queste masse di cittadini in enormi casermoni e palazzoni alzati nel bel mezzo di campagne brulle, isolate dal centro cittadino da chilometri di strade sterrate. Il paesaggio che se ne forma è di conseguenza un immondezzaio. Nelle descrizioni degli ambienti che fanno da sfondo alla vicenda, Pasolini è implacabile. Le borgate romane si susseguono una dopo l’altra tra prati zellosi, fiumi inquinati da scariche della fabbrica di varecchina, montagne di rovi, selciati sconnessi. La sporca enormità di quegli spazi abbandonati in cui fanno le loro scorribande orde di ragazzini cenciosi, fa da specchio distorto alle sudice stanzette in cui vivono, dormono e mangiano intere famiglie, racchiuse in pochi metri quadrati. All’insistenza sul degrado ambientale, segue quella sul degrado sociale e in ultimo, quello familiare. I ragazzi di vita non hanno istituzioni che li seguano, scuola e chiesa non risultano pervenute. Spesso ciò che li spinge ad azioni criminali o a soprusi quali il rogo del più rachitico tra di essi, è la noia e la mancanza di attività. Per i divertimenti del centro o anche solo per il pagamento di una prostituta incinta, ci vogliono i soldi. Pochi sono i mezzi leciti per procurarseli e quei pochi che esistono, sono faticosi o repugnanti (si veda l’episodio in cui il Riccetto aiuta i netturbini per poter ottenere il permesso di rovistare tra i rifiuti della discarica). Si ricorre allora ai furtarelli ai danni di vecchi ciechi, o all’appropriazione indebita di tubature di una fabbrica vicina. In questo clima vischioso, acuito dal solleone opprimente di Agosto, anche i vincoli sodali tra appartenenti alla stessa banda sono aboliti. I rapporti di amicizia sono opportunistici, basati sul mero interesse e chi ha l’ingenuità di esibire il proprio fascio di banconote viene punito con il furto.

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«Io rubo a te, perché domani sarai tu a farlo a me»: questa è la morale che sembra serpeggiare nelle menti del popolino. Il Riccetto, ad esempio, non si godrà neppure la sua iniziazione sessuale poiché sarà derubato da Nadia, la prostituta che aveva pagato per il rapporto. Queste infamie si riverberano fino al primo nucleo sociale di ogni adolescente: la famiglia. Condizioni di siffatta povertà escludono perfino l’affetto tra consanguinei. Emblematico è in tal senso il settimo capitolo del romanzo, il più disperato, che gira attorno alle peregrinazioni di un giorno qualunque nella vita di Alduccio, cugino del protagonista del romanzo, il Riccetto. Il padre è un ubriacone, la sorella è scampata fortunosamente a un tentato suicidio e la madre lo perseguita continuamente. Egli non riuscirà nemmeno ad appagare le sue bramosie sessuali perché indebolito dall’inedia e, dopo l’ennesimo litigio in casa, accoltellerà la madre. L’urlo di dolore di Pasolini contro questa situazione riesce a turbare le coscienze grazie a una precisa struttura narrativa che emerge pian piano da una finta episodicità. La prima parte del romanzo vede infatti, all’interno della lunga sequela di espedienti poco puliti, l’inserimento di alcuni slanci di pura umanità. Nel primo capitolo del romanzo il Riccetto si tufferà dalla barca che aveva preso in affitto con gli amici dopo notevoli disavventure, per salvare una rondinella che stava per affogare. Altro episodio che vira sul sentimentale è l’acquisto da parte di Marcello di un cagnolino, che denuda tutta la sua implicita tenerezza. Ma il vero giro di boa del romanzo, a nostro avviso, e quello francamente più difficile da accettare da un punto di vista razionale, è l’episodio che vede protagonisti il Riccetto e il Caciotta all’interno dell’appartamento di Sor Antonio. Il regalo da parte dei due ragazzi a una famiglia più disastrata di loro di una quantità di denaro derubata con tanta fatica, è perlomeno irrealistico. Così il romanzo mostra la sua natura di opera ideologica e sembra piegare i fatti a una preventiva presa di posizione. La citazione di Lev Tolstoj in apertura di quarto capitolo contribuisce a rafforzare questa tesi: «Il popolo è un grande selvaggio in seno alla società». La teoria del popolo barbaro ma vitalistico, crudele ma energico, ricorda da vicino quella del buon selvaggio di Rousseau. Ma, qui come lì, troppo facilmente si è disposti a perdonare i crimini di quegli individui, in nome del sovvertimento della società e dei valori borghesi. E allora la chiusura del libro appare spinta un po’ troppo sul versante della denuncia: il Riccetto, ormai adulto e contaminato dall’ipocrisia di ideali che non gli appartengono, lascia morire il piccolo Genesio sommerso dalla corrente. Noi, molto più modestamente, che abbiamo visto crescere il protagonista per duecento pagine, crediamo che egli, seppur a malincuore, il tentativo di salvataggio l’avrebbe fatto.


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