La voce spazzata via dall'acqua. Viaggio tra gli alluvionati del Veneto.

Creato il 09 novembre 2010 da Barbaragreggio
9 novembre 2010 Arrivare a Bovolenta è più difficile del previsto. All'incrocio che da Bertipaglia porta a Casalserugo trovo il primo posto di blocco dei vigili urbani. Piove, una leggera coltre di nebbia sale dai campi, l'uomo che mi parla attraverso il finestrino indossa una lunga mantella impermeabile, scura come l'auto che mi sta davanti. "Proseguire in direzione Padova" mi dice, con poca convinzione. Deve essere stato inviato lì da un altro distretto, probabilmente è la prima volta che mette piede in quella zona, vista la poca conoscenza del territorio. Ma io non voglio andare verso Padova, io voglio vedere cosa accade a una settimana dall'alluvione, se davvero è ancora emergenza come dicono alla tivvù. Mi sposto sulla corsia di sinistra, svolto comunque per Casalserugo e, oltre la curva dello spaccio Corona, trovo il primo gruppo di vigili del fuoco. Hanno fatto base su un quadrato di terra pieno di fango, qualche camionetta e una barca ancorata ad una palma. Ci sono uomini vestiti di giallo fluoresecente, pronti ad entrare in azione, intenti per il momento a scrutare il cielo minaccioso. Le vetrine dei negozi sono tappezzate di fogli, avvisi del Comune su dove poter trovare indumenti e generi di prima necessità. Non riesco ad avanzare molto, al semaforo trovo il secondo blocco. La strada per Polverara è transennata, il ponte è chiuso. Un uomo mi spiega che il livello del canale è sceso, ora è sotto controllo, ma il ponte deve essere testato prima di poter riaprire il traffico. Una precauzione doverosa, penso io. Svolto a sinistra, mi lascio la chiesa alle spalle e imbocco una stradina a senso unico, stretta e con molte curve. Un serpentello d'asfalto su cui sbucano sacchi di juta bianca con la scritta azzurra "Protezione civile Regione Veneto", sembrano funghi dopo la pioggia, cresciuti all'improvviso. E qui, su questa via lunga e irregolare, trovo i primi segni evidenti dell'alluvione. Tre divani - la sola struttura, senza più i cuscini - stanno appoggiati contro una rete, di fronte ad un'abitazione. Sono soli, inzuppati d'acqua, scoloriti. Attendono di essere buttati tra i rifiuti. Proseguo, non senza fatica, e arrivo in un quartiere graziato dalla pioggia, i sacchi pressoché inutilizzati, le cantine asciutte. Non si arriva al cuore dell'alluvione, e comunque non ci voglio arrivare, non ora.Cambio destinazione: Bovolenta. Bovolenta è la mia seconda casa, ci sono cresciuta quando - bambinetta - ci passavo le estati con i miei cugini. La casa di mia zia è andata sotto completamente, solo la soffitta si è salvata, nel 1966. Questa volta il fiume ha scelto di esondare dalla parte opposta, l'argine ha rotto oltre la chiesa e la piazza, inondando la zona che va verso Ronchi. Guido piano, non ho fretta, continua a piovere. Mi perdo tra viuzze di cui non conoscevo l'esistenza fino a pochi minuti fa, un groviglio di piccole abitazioni e campi, erba sui fossi, foglie sull'asfalto lucido. Passo per Bertipaglia, noto un particolare che nelle grandi città è andato perduto: alla parete del bar del paese, tra la finestra dietro il bancone e la porta d'ingresso, sono appesi i necrologi. Sono tanti, penso, ma forse sono anziani, in questo scampolo di campagna da cui molti fuggono, e mi rincuoro. E' un falso balsamo per la mia anima, lo so bene. Non è vero che tutti fuggono dal paese in cui nascono, per quanto piccolo e di strette vedute. Molti dei miei cugini, alcuni proprio di Bertipaglia, non si sono allontanati affatto e vivono bene lo stesso. Sereni, tranquilli, appagati. Forse è la città che rimescola gli animi, portandoli al subbuglio. Torno a concentrarmi sulla strada davanti a me, conto i blocchi sui canali, minuscole dighe di ferro che regolano il flusso delle acque. Chissà chi le ha alzate, in questi giorni? Gli abitanti della via, o forse la protezione civile, o forse ancora, nessuno, erano già sollevate. Sembrano ghigliottine, con la lama pronta a scendere e tagliare i fili d'erba oltre il pelo dell'acqua. Non ho idea di dove mi trovo, non ci sono indicazioni, né cartelli pubblicitari. Solo fossi e campi. Mi lascio guidare dall'andamento curvilineo dell'asfalto, sto in silenzio e aspetto di arrivare alla fine di questa via di cui non ho letto il nome, quando l'ho imboccata dieci minuti fa. La strada si fa in salita e d'improvviso mi trovo su un ponte. Il ponte di Cagnola. La visibilità è pessima e i camion sfrecciano veloci a recuperare i rallentamenti dei giorni scorsi. L'argine si è trasformato in una strada provinciale, ora è l'unico collegamento tra Cagnola e Bovolenta, o, meglio, tra Bovolenta e molti altri paesi. L'acqua non fa paura vista dall'alto della strada, il letto che la accoglie è grande, spazioso. I campi dabbasso sono zuppi, i solchi lasciati dalle ruote dei trattori scompaiono in enormi pozzanghere. La vita scorre, le auto proseguono decise, le persone lavorano. Poco dopo l'incrocio con Gorgo - o forse poco prima - un'idrovora è in azione, un uomo si è calato lungo il tubo maggiore, abbarbicato come la vite al legno. Solo due giorni prima, oltre il livello della strada, dal lato opposto, era tutto sommerso. Ora si vedono le case, le stalle, le aziende agricole. Bovolenta è silenziosa, attivamente silenziosa. Non è facile trovare parcheggio in questo paese che a me, che l'ho sempre visto e vissuto, sembra un'appendice di casa. Spengo il motore in Piazza Ragazzi del 99, affollata di auto. Fatto insolito, questo, ma non oggi, che le auto accanto alla mia sono quelle di chi ha visto la propria casa andare a fondo, coperta dalla furia dell'esondazione. Cammino sul ciglio della strada in salita, non c'è marciapiede. Il traffico viene fatto deviare verso l'argine da cui sono arrivata e, più in basso, in direzione di Terrassa Padovana. "Buongiorno, si può avanzare a piedi?" Chiedo sottovoce, d'un tratto mi sento piccola e misera. "Certo, se vuole può usufruire della navetta." Mi risponde un uomo sulla sessantina, cordiale e in divisa. Protezione civile. "No, grazie. Faccio una passeggiata." Dico io, quasi arrossendo. Mi sento fuori luogo, con le mie scarpette da ginnastica e la moleskine sotto il braccio. Non sono una vera giornalista, non ce l'ho ancora - io - il tesserino da professionista. Non mi hanno chiesto nulla, su al blocco, e io non ho detto nulla. Ora, però, che passeggio lungo la strada, che mi inerpico su per l'argine a guardare l'acqua correre veloce, mi sento male. Cammino e non scrivo, non annoto nulla, bastano i miei occhi a segnare i colori, i rumori e le facce. Ha ripreso a piovere intensamente, apro l'ombrello e per poco una folata di vento non lo fa volare via, lo riprendo appena prima che si alzi oltre il recinto di un'abitazione. Un paio di ruspe sono al lavoro, rafforzano l'argine laddove l'acqua aveva strappato terra ed erba. Il fango è visibile accanto all'asfalto, una scia molliccia e profonda che divide la strada dalla pista ciclabile. Ci sono mobili ammassati sul ciglio, dall'altro lato. Un armadio, senza ante, una lavatrice, un televisore, dei ripiani. E' un quadro sgualcito quello che mi toglie le parole. Il piazzale del distributore di benzina si è trasformato in un centro di raccolta per vigili del fuoco e protezione civile. Ci sono dei gommoni, anche di privati, ora non servono più, ma - una settimana fa - hanno portato in salvo centinaia di persone. Dalle finestre spalancate non escono voci, solo il rumore sommesso del riordino. Arrivo di fronte all'idrovora di Bovolenta, costruita - leggo sulla targa appesa alla rete - nel 1925. Faccio i conti con le dita, di dieci in dieci, come i bambini delle elementari, e mi accorgo che - praticamemente - ogni 40 anni qui c'è un alluvione che spazza via tutto. Un canale minore, che svolta in prossimità della strada, porta i segni dell'inondazione, carte, residui, impurità, rimasti impigliati sulla superifice scomposta. La siepe di una casa singola, una bella casa nonostante tutto, è segnata dal fango fin oltre la metà. Il marrone della melma ha disegnato uno spartitraffico tra il prima e il dopo, tra ieri e oggi. Non c'è confusione, tutti lavorano in silenzio, mestamente. Nessuno grida, nemmeno per salutarsi. L'acqua ha tolto la voce a queste persone, impastandole nel silenzio. Si sorride, oggi, ed è già molto. Sotto una tenda bianca, svolazzante e leggermente fuori asse, si offrono aiuti. Io - che pensavo di trovarci dentro cibo e coperte - mi sorprendo a vedere scatoloni pieni di detersivi e disinfettanti, scope e mocci. Nessuno si riunisce a parlare di quanto avvenuto una settimana fa, sono tutti impegnati a pulire e riordinare, ora che anche le cantine sono state svuotate dall'acqua. Cerco di documentare quello che vedo attorno a me, provo a fare delle foto, ma è impossibile immortalare la dignità di queste persone. E' blasfemo entrare con l'obiettivo nelle case devastate dall'alluvione. Così proseguo a testa bassa, mi limito a fotografare qualche oggetto, da lontano, con lo zoom. Altro distributore di benzina, altro punto di raccolta. Un enorme generatore pompa energia elettrica nel quartiere a ridosso dell'argine. La via, più uno spiazzo che una strada, è popolata da persone efficienti che accatastano sul marciapiede ciò che non è più salvabile e portano al sicuro le poche cose che sono scampate all'acqua. Del salone di una parrucchiera rimangono le scritte sulle vetrine - due - e le poltrone nere imbrattate di fango. Dentro si lavora senza sosta, e senza voce. Poco più in là stanno appesi dei vestiti ricoperti di nylon, di una lavanderia - forse. Il fango ha mangiato gli orli delle camicie, colorando di marrone i pantaloni piegati. Spengo la macchina fotografica e la metto in tasca. Non me la sento di scattare foto mentre, qualche metro più un là, c'è chi ha perso buona parte della casa, muri esclusi. Le mie fotografie non riporteranno indietro gli album di famiglia di quelle persone, i loro ricordi trascinati via, finiti ad impigliarsi chissà dove. Torno sui miei passi, non ha senso proseguire. Le immagini che si susseguono sono simili, per violenza e desolazione. L'acqua è furia cieca, possente, incontrollabile. Quando decide di andare all'attacco l'uomo non la può fermare, non è fuoco che si spegne. Fa freddo, lungo la strada. Ci sono 9 gradi, che sulla faccia sembrano 2, al massimo 3. Dopo l'alluvione è arrivato anche il freddo. Tra qualche ora, qui, ci saranno Berlusconi, Bossi, Bertolaso. Non cambia nulla. Non si cerca di tirare a lustro quel poco che è rimasto, si lavora per la normalità, non per le istituzioni. Vorrei non essere banale, evitare di dire che il nord - come nello stereotipo più scontato - si rimbocca le maniche e va avanti. Vorrei non cadere nel clichè del "ci arrangiamo da soli" o, meglio ancora "femo tuto da soi, che xe mejo". Vorrei raccontare una storia originale, non la solita immagine del Veneto che lavora a testa bassa e non aspetta gli aiuti da fuori. Mentirei, però, e non voglio mentire. Io, qui, racconto solo quello che ho visto, senza pregiudizi né favoritismi. L'alluvione, per me, è, e sarà sempre, il dignitoso silenzio che ho sentito questa mattina, tra gli alluvionati. Per vedere le immagini correlate al reportage, cliccare sul titolo. Barbara Greggio

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