Buon attacco, esaltato dalla punteggiatura e dalla lettera minuscola che dà l’idea di un discorso già cominciato, di tutto quello che sta fuori e prima del testo, che è breve, sì, ma sa concentrare un mondo in poco spazio narrativo, proprio quello che deve fare un racconto breve.
In “Un piccolo tesoro”, di Annamaria Eleonora Lorusso, troviamo personaggi senza nome, senza storia ma concreti, una coppia, la madre di lei che soffre consumata dalla malattia, la protagonista che, grazie all’appoggio di un lui - marito, compagno, fidanzato? - non descritto eppure tangibile nella sua presenza costante, nell’affetto, nel sostegno fatto anche di piccoli gesti come strapparla alla sofferenza accompagnarla in una deliziosa gelateria, trova un poco di spensieratezza, di sollievo. Il negozio colmo di leccornie è il “pronto soccorso” dell’anima che richiama, inevitabilmente, l’altro pronto soccorso, quello dell’ospedale, pieno di persone che soffrono.
Quanto può essere devastante il dolore degli altri, quello di una madre che lentamente, per un destino inesorabile, se ne sta andando? Chi è accanto ne viene risucchiato, diventa egli stesso “dolore”, e, per un meccanismo perverso, non riesce a distaccarsi da quei contenitori di sofferenza che sono i nosocomi. È quanto avviene alla protagonista del racconto, prigioniera dei corridoi, degli infissi cromati, delle flebo e dei volti ormai familiari di medici e infermieri. Ma se qualcuno ti prende per mano, se qualcuno ti offre una pausa, un soffio d’aria pura, allora anche una piccola gelateria, i profumi e i sapori dolci di creme e mousse, possono essere balsami, rifugi, piccoli tesori che ridonano forza e ridanno linfa all’amore che non si esaurisce.
Frammento e breve cronaca di un’esperienza dolorosa. La vita reale, non sempre idilliaca, impone le sue leggi, momenti di smarrimento a contatto con la sofferenza, ma anche piccole oasi di emozioni e sensazioni che consentono di guardare al futuro.
L’autrice scava nell’anima, ma utilizza anche uno stile quasi pittorico, ricco di immagini che irrompono nella mente, con un ritmo ondeggiante, che dall’angoscia passa al sereno e viceversa.
Patrizia Poli e Ida Verrei
Un piccolo tesoro
… - andate, portatela via, per piacere - disse sua madre mentre erano accanto a lei. Aveva intercettato i loro sguardi, e fissò gli occhi in quelli di sua madre: aveva un’espressione che non ammetteva repliche, e del resto era troppo stanca per contraddirla. - Va bene, mamma, ma torno presto. - - VAI! - le rispose sua madre, decisa. Uscirono velocemente dal labirinto del nuovo - o quasi - plesso ospedaliero, entrarono in macchina e lei vide scorrere i profili a specchio degli infissi dell’edificio dove sua madre era ricoverata per l’ennesimo ciclo di chemio. - Dove mi porti? - gli chiese - indovina, disse lui, guardandola per un attimo e pregustando la sua aria sorpresa. Avevano lasciato la pianura, quella piatta distesa che le opprimeva l’anima, così diversa dai monti così presenti nella sua mente, e si stavano dirigendo verso le colline gialle di messi e nere di terra bruciata della vicina cittadina. Giunsero nel piccolo, prezioso centro storico, e sembrava che avessero viaggiato per migliaia di km…..l’ospedale era lontano, con i corridoi infiniti, i puzzle variopinti alle pareti, i volti ormai noti di tutto il Personale… La prese per mano, come aveva ripreso a fare da qualche tempo, ed entrarono in una piccola, curatissima, deliziosa gelateria artigianale, una delle pochissime presenti nella provincia… e là le si fecero incontro le delicate e profumate consistenze dei frutti e delle creme più ricercate e deliziose: panna cotta ai frutti di bosco, creme caramel, crema di noci, mousse al cioccolato fondente, l’autentica zuppa inglese, crema ai limoni … era la loro oasi, quella, il pronto soccorso a cui lui si rivolgeva quando la vedeva distrutta per la mancanza di sonno e per quel dolore inesorabile che la stava scavando, senza scampo, senza pietà, senza misericordia. E scherzando su chi avesse azzeccato il gelato più buono, lei riusciva a non pensare, per qualche momento, alle flebo che aveva imparato a temporizzare senza errori, alla sequenza rigida degli antiblastici, ai farmaci che mancavano e che avrebbe dovuto procurarsi perché l’ospedale non li aveva, e all’ufficio dove la stavano aspettando. Poteva ora ritornare da sua madre, poteva godersela ancora un po … ora stava meglio, il piccolo tesoro aveva funzionato, anche questa volta.
Annamaria Eleonora Lorusso